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GENEZARET: ARGOMENTAZIONI A CARATTERE TEOLOGICO-LITURGICO

Città sempre della Galilea settentrionale, Genezareth è luogo turistico per le meravigliose bellezze naturali e teologiche che essa include dentro di sé.

Vediamo in questo contributo di evidenziarne i tratti specificamente teologici.
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Genesaret diviene il luogo di approdo di Gesù e dei suoi discepoli dopo aver attraversato il mare di Galilea: “Compiuta la traversata, approdarono e presero terra a Genesaret” (Mc 6,53).

Genesaret, denominata anche Tiberiade, è una città della Galilea posta dalla parte nord occidentale dell’omonimo lago.

Approdati a Genesaret, Gesù, insieme ai suoi discepoli, scese dalla barca e la gente “lo riconobbe, e accorrendo da tutta quella regione cominciarono a portargli sui lettucci quelli che stavano male, dovunque udivano che si trovasse” (Mc 6,54-55).

Genesaret è il luogo in cui Gesù realizza la sua missione salvifica per 3 ragioni:

perchè accoglie la gente che gli porta i malati

perchè consente agli indigenti la possibilità di toccarlo: “E dovunque giungeva, in villaggi o città o campagne, ponevano i malati nelle piazze e lo pregavano di potergli toccare almeno la frangia del mantello” (Mc 6,56).

perchè permette ai malati di toccarlo e di guarirlo: “Quanti lo toccavano guarivano” (Mc 6,56).
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Genesaret offre a Gesù lo spazio per accogliere i malati e per toccargli la frangia del mantello al fine di ottenerne la guarigione.

Sotto questo profilo Genesaret diviene il luogo propizio per compiere una vera e propria azione liturgica tesa a sanare gli indigenti; azione liturgica che viene realizzata in parte dal popolo e in parte dal maestro attraverso questi gesti:

la gente vede il maestro. Genesaret permette alla gente di “vedere” Gesù.

La gente accorre da tutta la regione della Galilea. Genesaret acquista il ruolo di essere luogo di ritrovo dei malati.

La gente porta sui lettucci i malati. Genezaret offre lo spazio per mettere i lettucci sulle piazze

la gente si avvicina a lui perchè ha udito che era lì. Genezaret diviene il luogo sonoro della presenza del maestro e della diffusione della notizia che il maestro era lì.

Luogo di supplica. Genezaret è testimone dell’azione supplichevole del popolo che chiedeva a Gesù di potergli toccare almeno il lembo del mantello.

L’azione “tattica” del popolo. La gente tocca il lembo del mantello di Gesù.

L’azione sanatrice di Gesù
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Da ciò si deduce che l’azione liturgica di Gesù, diretta a guarire i malati, è strettamente interconnessa, o meglio dipesa, da quella del popolo, per cui tale azione liturgica sembra essere posta a coronamento di quella voluta e “compiuta” realmente dalla stessa gente: alla richiesta e alla fattiva azione liturgica della gente segue la conseguente e istantanea azione liturgica di Gesù, perchè Gesù guarice subito quanti lo “toccano”.

Sempre a Genezaret i farisei intavolano una discussione con Gesù “avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani immonde, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi (…)” (Mc 7,2-5).

I farisei si attenevano scrupolosamente alla legge, con lo scompenso di trasmettere una liturgia della Parola vuota, perchè fine a se stessa.
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A questa liturgia “letterale” della parola, svuotata del suo senso spirituale, Gesù contrappone quella “spirituale”:

Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Is 29,13).

Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». E aggiungeva: «Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: «Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte (Mc 7,6-10).

Alla base di una liturgia della parola vuota di senso sta il fatto che questa poggia sulla tradizione degli uomini e non sulla volontà di Dio.

Gesù, alla liturgia della parola compiuta dai farisei a causa della loro fedele osservanza alla “tradizione degli uomini”, oppone una nuova liturgia della parola fondata sul “timore di Dio”, dove l’elemento che contraddistingue questa liturgia è la predisposizione del cuore ad accogliere la volontà di Dio e non quella della tradizione fondata dagli uomini.
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La vera liturgia “spirituale” della parola, proposta da Gesù, prende le mosse dalla cura, dalla attenzione e dal particolare riguardo che il fedele ha nei riguardi di Dio.

Dalla cura, dall’attenzione, dalla profonda riverenza e rispetto che l’uomo ha per Dio; attenzione che deriva dal sottomettere la propria volontà a quella di Dio ne scaturisce una liturgia della parola “piena”, nel senso che la parola trasmette in sé il sentimento cardine del timore di Dio, posta al fondamento di una vera e propria liturgia “spirituale” della Parola.

L’intera vita del credente diviene liturgia della parola, secondo Marco.

Sotto questo profilo Genezaret assume su di sé la caratteristica di essere il luogo in cui Gesù fa nascere la liturgia della Parola di Dio, annullando quella propria dei farisei, perpetuata sulla “tradizione” voluta dagli uomini e non da Dio.
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Sempre a Genezaret Gesù puntualizza che ciò che contamina l’uomo proviene dal cuore e non dall’esterno (Mc 7,14-16).

Gesù ripete la stessa cosa ai discepoli, spiegando loro che “dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi (…)” (Mc 7,21-23).

Alla luce dell’insegnamento del maestro Genezaret diviene il luogo in cui i discepoli imparano che la vita di ogni uomo può diventare una vera e propria liturgia della Parola di Dio se dal suo interno, cioè dal suo cuore, escono intenzioni buone, tese a propagare nel mondo l’amore che il Padre ha avuto verso il Figlio e il Figlio verso tutti gli uomini.

Genezaret diviene testimone del nuovo insegnamento teologico-liturgico del maestro, in relazione al quale i discepoli comprendono che la stessa vita del credente è tesa a divenire, se lo vuole, – cioè se emana dal suo cuore intenzioni positive, dove traspare il fermo proposito di onorare il creatore – tempio di Dio, dove i “segni” liturgici vengono scanditi dal propagare la Parola di Dio e dal compiere buone azioni.

Cinzia Randazzo

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La gloria nel vangelo di Giovanni

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Partendo dal significato della gloria, intesa come fama e onore universali, attribuite a persone che hanno ottenuto una grande rinomanza per contraddistinguersi in azioni insigni, vediamo in questo contributo di delinearne i tratti essenziali in relazione alla gloria di Cristo e dei credenti in lui nel vangelo di Giovanni.
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La rivelazione della gloria di Cristo

I miracoli

Secondo la testimonianza di Giovanni in 2,11 i miracoli, che Gesù iniziava a compiere a Cana di Galilea, erano segni che manifestavano la sua gloria: “Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli (σημείων) in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11).

I miracoli testimoniano l’eccelsa figura del Salvatore e la sua indiscutibile signoria e supremazia sulle forze del male e della natura. La sua impareggiabile potenza su tali forze, manifestata nei miracoli, produce nei discepoli la fede in lui.

I discepoli credono in lui, nella sua reale incarnazione in forza della sua potenza che scaccia ogni tipo di male.

La fede quindi è conseguente al miracolo, perchè grazie al miracolo essi si rendono consapevoli e certi della sua potenza, in quanto tutte le cose obbediscono a lui e a lui solo si sottomettono.

La gloria quindi si estrinseca nella incarnazione del Verbo perchè, in forza della sua umanità, egli può rendere visibile a tutti la sua suprema potenza su tutte le cose.

Egli così attua la gloria mediante i miracoli che divengono segno concreto e tangibile del compimento terreno della sua gloria, che dapprima era eterna nel seno del Padre (Gv 17,5).

Mentre nel caso dei discepoli, la loro fede è posta come conseguenza della manifestazione della gloria di Gesù nel miracolo, nel caso della sorella di Lazzaro, la fede viene ad esserne la causa del miracolo, perchè in essa ella vede la gloria del Verbo fattosi carne:

Le disse Gesù: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?” Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato.

Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perchè credano che tu mi hai mandato. E detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori”!.

Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolte in bende, e il volto coperto da un sudario (Gv 11,40-44).
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La sorella di Lazzaro Marta vede il miracolo in forza della sua fede ma, sempre a proposito di questo episodio, la fede ritorna ad avere il ruolo secondario perchè, a detta di Gesù, proveniente dal miracolo (Gv 11,42).

La gente crede, in quanto si sviluppa in lei la fede al momento in cui Gesù compie il miracolo della risurrezione di Lazzaro.

La fede viene ad avere un duplice ruolo in relazione al miracolo di Lazzaro:

diviene causa del miracolo per la sorella di Lazzaro e consegue al miracolo sia per la gente che per i discepoli.

Queste ambedue facce della fede – la prima antecedente e l’altra conseguente al miracolo – attestano la gloria di Dio che si è manifestata nel miracolo compiuto dal Figlio, perchè, in forza della fede, il Figlio viene glorificato attraverso il miracolo sia da Marta, dai discepoli che da tutta la gente del luogo: “All’udire questo Gesù disse: Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio perchè per essa il Figlio di Dio venga glorificato” Gv 11,4.

Il miracolo della risurrezione di Lazzaro diviene dunque il luogo della manifestazione della gloria del Padre e del Figlio, grazie alla fede dei credenti e anticipa la pienezza della gloria del Figlio, che si realizzerà con la sua risurrezione che non ha fine perchè eterna.

La gloria si compie in pienezza con la risurrezione di Cristo, della quale quella di Lazzaro non è altro che segno, perchè con Cristo cessa per sempre la morte e ha inizio la vera vita, quella eterna.

Parallelamente alla malattia di Lazzaro, sopravvenuta perchè venisse glorificato Dio attraverso il Figlio, allo stesso modo la cecità di un uomo fin dalla nascita sopravviene, perchè si realizzino su di lui “le opere” di Dio, in modo tale che Dio venga glorificato nel Figlio mediante il segno della guarigione dalla cecità (Gv 9,1-3).

L’espressione “opere di Dio” è simile a “segni” che Giovanni aveva impiegato in 11,4, perchè è attraverso i segni concreti, ossia i gesti del Figlio, che si compiono le opere del Padre.

Il Figlio si serve dei “segni” per rendere concrete le opere del Padre: infatti egli per guarire il cieco si avvale della terra e della saliva.

Dall’impasto di questi due elementi concreti Gesù forma il fango e spalmandolo sugli occhi del cieco ridona a lui la vista, dopo che lo inviò a lavarsi nella piscina di Siloe (Gv 9,6-7).

Questo miracolo è stato compiuto da Gesù avvalendosi delle opere che Dio aveva creato fin dall’origine del mondo: la terra che esisteva fin dalla creazione del mondo e la saliva di cui Dio aveva dotato il primo uomo fin dalla creazione del mondo.

Con questi elementi fisici Gesù realizza il miracolo perchè venisse creduto dalla gente di essere il figlio dell’uomo, nonostante la persistente incredulità dei farisei.
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Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse:«Tu, credi nel Figlio dell’uomo?».

Egli rispose:«E chi è, Signore, perchè io creda in lui?».

Gli disse Gesù:«Lo hai visto: è colui che parla con te» Ed egli disse: «Credo, Signore!».

E si prostrò dinanzi a lui.

Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perchè coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi».

Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?. Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (Gv 9,35-41).

Il miracolo della guarigione del cieco nato dunque è stato compiuto da Gesù, parallelamente a quella di Lazzaro, perchè in coloro che lo vedono si attecchisca la fede in lui, affinchè venga glorificato il Padre nelle opere compiute dal Figlio.

In Gv il verbo vedere reca in sé non solo un significato fisico, ma anche spirituale: coloro che vedono fisicamente le opere compiute dal Verbo, le vedono con gli occhi della fede, perchè senza la fede vana sarebbe la loro visione alla stessa stregua dei farisei (Gv 9,41).
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I credenti

Giovanni esordisce il suo vangelo con la venuta del Verbo nella carne; Verbo che era presso Dio perchè era Dio (Gv 1,1-2) e in lui era la vita perchè tutto quanto esiste è stato fatto per suo tramite (Gv 1,3).

La venuta del Verbo comporta per l’uomo, secondo la versione di Giovanni, l’accoglimento o il rifiuto. A quanti l’hanno accolto e credono nel suo nome ha dato il privilegio di divenire figli di Dio e di vedere la sua gloria:

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre” (Gv 1,14).

La fede, cioè l’accogliere la Parola del Verbo, diviene la condizione senza la quale non è possibile percepire la sua gloria, ossia la sua eccelsa potenza e priorità su tutto quanto ha creato. Solo i credenti sono per Giovanni i diretti testimoni della sua gloria terrena, perchè già sulla terra il Verbo compiva prodigi che mai nessun uomo, nato tramite una donna, avrebbe potuto compiere.

La gloria appartiene solo al Verbo perchè è l’unico figlio tra tutte le creature umane, nato da donna e generato dal Padre, in quanto “unigenito dal Padre”.

Il verbo vedere indica non solo la percezione fisica della gloria del Verbo, ma soprattutto quella metafisica, metastorica che avviene mediante la fede, tramite la quale il credente accoglie la venuta dell’unigenito, considerandolo come un evento eccelso e degno di eminente importanza perchè unico e irripetibile.

Chi accoglie la venuta del Verbo onora lui e anche il Padre che lo ha inviato (Gv 5,23).

Il Padre, secondo Giovanni, viene glorificato da coloro che credono alle parole del Verbo, diventando discepoli diretti della sua Parola, alla stessa stregua del tralcio che, rimanendo attaccato alla vite, porta frutto, altrimenti muore:

Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore.

Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perchè la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena (Gv 15,7-11).
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L’amore vicendevole dei credenti, causato dalla fede nel Verbo, è il motore che produce nella vita dei fedeli una grande gioia, appannaggio vivente della gloria del Padre, perchè nell’amore, dal quale scaturisce la gioia, viene glorificato il Padre celeste.

Come per amore Dio fece il mondo tramite il Figlio, contemplando nella gioia il frutto del suo operato, allo stesso modo l’uomo, amando il Verbo e osservando i suoi comandamenti vive nella gioia, perchè sa di rendere, con questo suo operato, gloria al Padre.

Prima dell’arresto Gesù, nella sua preghiera al Padre, manifesta la sua consapevolezza riguardo a coloro che hanno creduto alla Parola del Verbo perchè essi, sulla base del fatto che hanno creduto che Egli proviene dal Padre e che il Padre lo ha inviato a tale scopo, glorificano a loro volta il Verbo:

Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perchè le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato.

(Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perchè sono tuoi).

Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro (Gv 17,7-10).

Sempre in questa preghiera Gesù chiede al Padre che quanti crederanno nel suo nome sappiano che il Padre li ha inviati e che li ha amati come Egli ha amato il Verbo, in modo tale che essi siano tra loro uniti col Padre, sulla base del fatto che hanno ricevuto la gloria dal Verbo che a sua volta gli era stata data dal Padre (Gv 17,22-23).

L’unione del Padre col Figlio si riflette a livello umano nella gloria che i credenti hanno ricevuto dal Verbo grazie al Padre che glielo ha concesso, perchè nella gloria i credenti si riconoscono uniti come i tralci in un’unica vite.

Ancora una volta Gesù chiede al Padre che quanti hanno creduto, abbiano il privilegio di contemplare la gloria che il Padre gli ha dato, perchè il Padre ha amato il Verbo ancora prima che il mondo venisse creato (Gv 17,24).

La gloria che il Padre ha dato al Verbo è appannaggio dell’amore del Padre verso il Figlio.

La gloria del Verbo si identifica in Gv nella zampillante condiscendenza del Padre nei confronti del Figlio, perchè fin dall’eternità l’amore del Padre traboccava nel Figlio e mai si consumava.

L’amore che il Verbo contemplava fin dall’eternità, glorificando il Padre, viene rivissuto da Pietro nell’esperienza suprema del martirio, per mezzo del quale viene glorificato Dio: “Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi»” (Gv 21,19).
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La glorificazione di Dio in Cristo

Secondo la testimonianza di Giovanni Gesù, in quanto inviato del Padre, rende gloria al Padre perchè professa la dottrina stessa del Padre. Egli conosce le Scritture perchè sapienza del Padre, e in ciò il Padre viene glorificato, diversamente dalla sapienza umana che riceve gloria da se stessa (Gv 7,14-18).

Infatti coloro che ricevono gloria dagli uomini, non credendo che il Verbo è venuto nel nome del Padre, non cercano la gloria che proviene solo da Dio (Gv 5,41-44). In quanto inviato dal Padre Gesù detiene la potenza del Padre stesso.

A proposito dell’episodio della malattia di Lazzaro, la malattia viene sconfitta da Gesù che è datore di vita, alla stessa stregua del Padre, in quanto da lui ha ricevuto tale potere, per cui la malattia ha posseduto Lazzaro in vista della sua dipartita da questo, affinchè fosse glorificato il Padre tramite il Figlio dal momento che Dio ha dato al Figlio tale potere: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perchè per essa il Figlio di Dio venga glorificato” (Gv 11,4).

In forza dell’unità che sussiste tra Padre e Figlio, qualunque cosa viene chiesto al Figlio, egli la concederà, perchè le opere che il Figlio compie, le compie grazie al Padre che ha accordato al Figlio tale privilegio, per cui il Padre viene glorificato tramite il Figlio per i prodigi che realizza: “Qualunque cosa chiederete nel mio nome lo farò perchè il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò” (Gv 14,13-14).

Come il Padre è intimamente legato al Figlio fin dall’eternità, così coloro che amano il Verbo e credono nel suo nome, realizzano le opere del Padre a guisa del Verbo e, divenendo suoi discepoli, glorificano il Padre.

Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore (Gv 15,7-9).

Nel contesto della passione Gesù prega il Padre di essere glorificato ora, affinchè il Figlio lo glorifichi, ricordandogli che egli lo ha glorificato sulla terra adempiendo il suo mandato nel realizzare l’opera che gli ha comandato di fare: “Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse:«Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perchè il Figlio glorifichi te (…).

Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare” (Gv 17,1.4).
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La glorificazione del Figlio nel Padre

Secondo Giovanni la glorificazione completa del Figlio avviene quando egli invierà il Paraclito a coloro che credono nel suo nome perchè, con l’invio dello Spirito, Gesù siede glorioso alla destra del Padre, contemplandone la sua gloria infinita: “Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c’era ancora lo Spirito, perchè Gesù non era stato ancora glorificato” (Gv 7,39).

Gesù invia lo Spirito nel mondo perchè egli, avendo ricevuto la gloria dal Padre, non è presente tra i credenti col corpo, ma attraverso il suo Spirito, per cui la gloria del Figlio risplende nell’alto dei cieli così com’è, in quanto non è velata dall’incredulità dei giudei e né viene percepita solo dalla fede, manifestandosi tale e quale nella sua essenza come lo era ab aeterno, prima della creazione del mondo.

Tornando alla sua vita terrena, Gesù afferma davanti ai giudei che egli non glorifica se stesso, ma è il Padre che lo glorifica, perchè il Figlio onora il Padre, lo conosce e osserva la sua parola, diversamente dai giudei che presumono di conoscere il Padre mentre invece non lo conoscono affatto:

Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica. Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla.

Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: “È nostro Dio!”, e non lo conoscete.

Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi: un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola (Gv 8,50.54-55).

I discepoli non compresero il tumulto della folla che andò incontro a Gesù al suo rientro in Gerusalemme e neanche la profezia di Zc 9,9ss. che annunciava l’ingresso del re dei Giudei su un asinello se non quando Gesù fu glorificato (Gv 12,16).

La gente del luogo si ricordava del miracolo di Lazzaro che Gesù aveva compiuto; per questo gli andava incontro, in quanto quel miracolo era segno della sua futura glorificazione che si adempì nell’ora della sua passione, come annunziato da Gesù stesso:

È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato (…)Se uno serve me, il Padre lo onorerà.

Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!» (Gv 12,26-28).
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Nonostante che Gesù abbia compiuto molti miracoli, i giudei rimanevano increduli perchè si adempissero le Scritture, come aveva detto Isaia:

Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui, perchè si compisse la parola detta dal profeta Isaia:«Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E la forza del Signore, a chi è stata rivelata?» Per questo non potevano credere, poiché ancora Isaia disse: «Ha reso ciechi i loro occhi e duro il loro cuore, perchè non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore e non si convertano, e io li guarisca!»

Questo disse Isaia perchè vide la sua gloria e parlò di lui. Tuttavia, anche tra i capi, molti credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga. Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio” (Gv 12,37-41).

Il riconoscimento della gloria di Cristo da parte dei capi della sinagoga veniva bloccata dal diniego dei farisei, che si opponevano a tale tipo di omologazione (Gv 12,41-43).

La glorificazione del figlio dell’uomo è causata dalla piena dedizione del Figlio a compiere la volontà del Padre e a servirlo come Lui vuole, per questo dopo che Giuda Iscariota prese il suo ultimo boccone Gesù è stato glorificato dal Padre (Gv 13,31-33) e viceversa.

Nel tradimento di Giuda Gesù restò fedele all’amore del Padre, adempiendone la sua volontà; per questo il Padre lo ha glorificato e, a sua volta, il Padre veniva glorificato in lui.

Quando verrà lo Spirito di verità glorificherà il Figlio perchè annunzia le cose che prende dal Figlio, come il Figlio compie tutto quello che il Padre gli ha riferito (Gv 16,13-14).

La gloria che il Padre ha dato al Figlio, egli l’ha fatta fruttificare, dandola ai credenti perchè divenissero una cosa sola, come il Padre lo era con il Figlio, in modo che essi fossero convinti che il Padre ha inviato il Figlio e che lo ha amato con lo stesso amore con cui Egli ha amato loro (Gv 17,22-23).

Precedentemente, nella sua preghiera al Padre, il Figlio gli chiede di essere glorificato con quella gloria che aveva ab aeterno prima che il mondo venisse creato, dal momento che egli ha glorificato il Padre sulla terra in quanto egli ha ricevuto il potere sopra ogni essere umano, affinchè ogni uomo pervenga alla conoscenza di Dio e di Cristo suo figlio:

Così parlò Gesù. Poi, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perchè il Figlio glorifichi te. Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perchè egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato.

Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo.

Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse (Gv 17,1-5).

Prima della sua passione, Gesù chiede che venga glorificato dal Padre come quando godeva della sua gloria prima della creazione del mondo.

Il Padre ab aeterno aveva dato lo splendore della sua gloria al Figlio perchè, generato dal Padre, aveva dato al Figlio il potere su ogni cosa, detenendo la sua supremazia su tutte le cose, in quanto sapienza stessa del Padre.

Egli condivideva la gloria del Padre ed era insignito di tale gloria perchè consigliere eterno del Padre, in quanto con lui si era confidato e aveva affidato i suoi disegni, affinchè fossero realizzati solo da lui, l’unigenito del Padre.

Cinzia Randazzo

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I nuovi timorati di Dio

In un’epoca segnata da profonde crisi e da calamità naturali, sembra opportuno rifarci ai timorati di Dio che, alle origini del cristianesimo, hanno “avuto una parte di rilievo nell’esito favorevole della prima missione cristiana. Essi divennero, insieme agli ellenisti, (Greci), un gruppo di capitale importanza, perchè rimasero fedeli al vangelo”, nonostante il loro rifiuto a sottomettersi alla pratica giudaica della circoncisione.

Vediamo appunto in questo contributo di rilevare i tratti peculiari della loro vita religiosa, affinchè il laicato possa essere, anche oggi sul loro esempio, appannaggio del timore di Dio in Cristo.
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I timorati di Dio

I timorati di Dio per Cristo e in Cristo

Luca menziona Simeone, uomo giusto e “timorato di Dio” (Lc 2,25).

Il timorato di Dio viene equiparato al servo del Signore che il Signore ha eletto, perchè ha posto il suo Spirito su di lui: “Lo Spirito Santo che era sopra di lui” (Lc 2,26).

Simeone era un uomo devoto a Dio, il cui spirito era docile a compiere quello che Dio gli diceva.

Su di lui lo Spirito del Signore aveva posto la sua dimora, perchè il suo cuore era predisposto a fare ciò che Dio gli diceva.

Infatti grande era il suo attaccamento a Dio, che lo Spirito del Signore gli predisse la venuta del messia; venuta che sarebbe stata “segno di contraddizione” per il popolo di Israele: “gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il messia del Signore” (Lc 2,26).

Per il timore di Dio, cioè per il suo profondo amore verso il Padre celeste, egli fu spinto dallo Spirito Santo e, recandosi al tempio in occasione della consacrazione di ogni primogenito maschio al Signore, come era prescritto dalla Legge, prese il bambino Gesù.

Dopo aver benedetto Gesù e i suoi genitori predisse – in veste di portavoce dello spirito del Signore – che Gesù era venuto nel mondo per “la rovina e la risurrezione di molti in Israele” (Lc 2,34).
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Simeone aveva predetto tutto questo (l’arrivo del messia), perchè aveva una profonda riverenza verso Dio, essendo irreprensibile il suo timore verso Dio, cioè la sua fiducia e la sua amicizia in Dio. Per questa sua volontaria disposizione a compiere ciò che Dio voleva, egli fu un uomo giusto e timorato di Dio.

Parallelamente in Gv 9,31 timorato di Dio viene designato colui che predispone il suo spirito a fare la volontà di Dio: “Noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta” (Gv 9,31).

Nel caso del cieco nato il timorato di Dio viene identificato con Gesù perchè lui solo, provenendo dal Padre, è interamente dedito al Padre con lo spirito e il corpo:

Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato.

Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla (Gv 9,32-33). Sempre Giovanni in 12,20 fa riferimento ai timorati di Dio, cioè a “quelli che erano saliti per il culto (τινες ἐκ τῶν ἀναβαινόντων ἵνα προσκυνήσωσιν) durante la festa” (Gv 12,20), precisando che tra coloro “c’erano alcuni greci” (Gv 12,20).

Ciò attesta che i timorati di Dio non sono coloro che offrivano sacrifici a Dio, ma sono coloro che volgono il loro spirito a Dio, sottomettendosi a lui e amandolo al di sopra di ogni cosa.

Ne fa fede il verbo προσκυνεῖν in Gv 12,20 che in greco significa “adorare, rendere omaggio” .

In Giovanni il verbo indica il prosternarsi di coloro che salivano al tempio di Gerusalemme per rendere culto a Dio Tale verbo proviene da πρός (vicino) e κυνέω (dare un bacio) .

Dalla unione di queste due parole si evince che il timorato di Dio è colui che, in segno di riverenza e di rispetto, esprime il proprio fervente attaccamento a Dio.
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Giovanni precisa che, tra coloro che si recano al tempio, c’erano anche alcuni greci.

I greci si recano al tempio, sulla base della loro predisposizione a essere riverenti e rispettosi di Dio, perchè profondamente attaccati a Dio e, per questo motivo, sono annoverati da Gv come timorati di Dio.

Veniva designato come timorato di Dio un determinato gruppo di persone pagane per nascita, che si sentivano parte della comunità giudaica, senza essersi però sottomesse alla pratica della circoncisione ed essere divenute proseliti giudei.

Alla stessa stregua di Simeone, anche Cornelio era chiamato pio e timorato di Dio perchè egli era dedito a Dio, rivolgendogli le preghiere e facendo le elemosine: Era religioso e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio (At 10,2).

Il principale elemento che contraddistingue la figura di Cornelio rispetto alle altre è il fatto che egli era religioso e, al contempo, timorato di Dio.

La sua religiosità è interconnessa con il timore per cui, oltre a fare le elemosine, pregava Dio.

Secondo quanto ci testimonia Luca, la religiosità di Cornelio si estrinseca nel fare le elemosine, mentre il timore nel pregare Dio.

La religiosità è appannaggio dell’uomo che si volge a cercare il divino.

L’uomo religiosus, fin dall’antichità, era colui che aveva una spiccata tendenza a contemplare ciò che stava oltre, o meglio dietro il suo orizzonte fisico.

L’al di là lo affascinava a tal punto che tutto il suo essere era orientato ad immergersi in questa sfera che oltrepassava la sua pura materialità, per andare oltre se stesso.
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Nella stessa ottica si consuma la religiosità di Cornelio; religiosità che precede e che fonda la stessa virtù del timore di Dio. Senza questo anelito a Dio non era possibile per Cornelio, come per un uomo saggio, concretizzare nelle opere di carità questa sua sete di infinito.

A partire dalla religiosità, cioè a partire dall’apertura di se stesso a Dio, ne consegue per Cornelio, alla stessa stregua dei sapienti, la virtù pratica della religione che si estrinseca nelle sue diverse forme, compresa quella dell’elemosina, come nel caso di Cornelio.

Grazie a questa sua forte inclinazione a Dio, Cornelio si aggiudica il beneplacito di Dio con la preghiera, perchè essa detiene per l’anima lo stesso ruolo che il carburante ha nella macchina.

L’anima dell’uomo, senza la sua elevazione a Dio, perde se stessa, in quanto essa è orientata a vivere in pace con Dio per dedicarsi a lui, per cui l’uomo è chiamato a nutrire la vita dell’anima con la preghiera. La preghiera non è solo una semplice ripetizione di parole vuote di senso, ma se ne deve riporre la forza piuttosto nelle scelte dell’anima, e nella pratica delle virtù estesa a tutta la vita.

Sia che mangiate, dice l’Apostolo, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi cosa, fate tutto a gloria di Dio! (1Cor 10,31).

Sedendo a tavola, prega; prendendo il pane ringrazia chi te lo dona; rinfrancando col vino il corpo estenuato, ricorda chi ti porge questo dono per rallegrare il tuo cuore e rinfrancare la tua debolezza. E’ finito il pranzo?

Non cessi il ricordo del tuo benefattore. Se indossi l’abito, ringrazia chi te lo ha dato; se ti getti sulle spalle il mantello, cresci nell’amore di Dio il quale ci provvede d’estate e d’inverno degli abiti adatti per proteggere la nostra vita e nascondere le nostre vergogne (…).

In questo modo «pregherai senza interruzione», se non limiterai la tua prece alle sole parole, ma ti unirai a Dio in tutta la condotta della tua vita, sicchè il tuo stesso vivere sia una preghiera continua ed incessante.
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Origene spiega che innanzitutto, tramite la preghiera, l’orante ha il compito di lodare Dio; alla lode ne conseguono i ringraziamenti e la confessione dei propri peccati, seguita dalla supplica del perdono di questi e da una petizione dei doni sublimi.

Nella preghiera l’orante mostra la sua continua lode a Dio, per mezzo di Cristo nello Spirito Santo.

All’inizio, cominciando la preghiera, si devono elevare con tutte le proprie forze lodi a Dio, per mezzo di Cristo, glorificato nello Spirito Santo, che è con lui.

Dopo di ciò, ognuno farà seguire ringraziamenti generali, pensando ai benefici elargiti a tanti uomini e quelli personali ricevuti da Dio.

Dopo il ringraziamento, mi sembra che si debbano accusare con severità, davanti a Dio, i propri peccati, supplicando lui di salvarci e liberarci dallo stato in cui quelli ci hanno condotto, e anche di perdonarci le colpe commesse.

Dopo la confessione dei peccati, si chiederanno i doni sublimi, celesti, particolari e collettivi, per i parenti e gli amici. E in tutto ciò la preghiera deve risuonare come lode continua a Dio per mezzo di Cristo nello Spirito Santo.

Origene puntualizza che, tramite la preghiera, l’uomo rende l’anima sacra a Dio, nel senso che l’anima “si dispone soavemente per piacere a lui che è presente, che giunge al fondo di ogni pensiero e che esamina i cuori e scruta le reni (Sal 7,10)”.

Colui che prega, sempre per Origene, deve avere l’intenzione di piacere a Dio più che all’uomo e, per piacere a Dio, è chiamato ad allontanare da se stesso ogni proposito malvagio che fomenti l’ira e la perversione e che dia adito a turbamenti di ogni genere,cancellando dall’anima ogni sentimento d’ira e non serbando turbamento contro nessuno.

Inoltre, affinchè la sua anima non sia offuscata da pensieri estranei, deve dimenticare, nel tempo dedicato alla preghiera, tutto ciò che ad essa non si riferisce.
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Da tutto quanto, abbiamo notato che la preghiera è il cibo dell’anima, perchè essa consente all’anima una maggiore vicinanza con Dio, rendendo così Cornelio timorato di Dio. La sua vigilanza e la sua costanza, nel pregare e nel fare le elemosine, trovano grazia agli occhi di Dio perchè queste hanno fatto di Cornelio un vero timorato di Dio.

Un giorno verso le tre del pomeriggio vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro e chiamarlo: “Cornelio!” Egli lo guardò e preso da timore disse: «Che c’è, Signore?». Gli rispose: «Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite, in tua memoria, innanzi a Dio (At 10,3-4).

Cipriano di Cartagine, ricorrendo alla citazione di At 10,4, afferma che Dio ha esaudito Cornelio, perchè egli era uno che si prodigava nelle elemosine alla gente, e sempre stava a pregare Dio.

Appunto a lui, mentre pregava, verso l’ora nona un angelo venne a rendergli testimonianza del suo operato, dicendo: «Cornelio, le tue preghiere ed elemosine sono salite fino a Dio che se ne ricorda» (At 10,4).

Salgono immediatamente a Dio quelle preghiere che si presentano a lui coi meriti delle nostre opere.

Luca in At 10,2 designa Cornelio “uomo pio (εὐσεβὴς) e timorato (φοβούμενος) di Dio”, mentre in 10,22 “uomo giusto (δίκαιος) e timorato (φοβούμενος) di Dio”. La connotazione di timorato di Dio è preceduta, nel primo caso, dall’aggettivo pio e, nel secondo caso, dall’aggettivo giusto. Nel primo caso Luca puntualizza che Cornelio, prima di essere timorato, era pio, cioè “rispettoso (delle disposizioni)” .

Viene designato pio colui che ha un “timore reverenziale, profondo rispetto, pietà, religione” verso Dio.
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Nell’A.T. Il pio è colui che ha stabilito con Dio un patto di alleanza, al quale corrisponde di essergli fedele. Sulla base di questa sua fedeltà a Dio, Dio compie prodigi per lui.

Il termine pio, che raramente si trova nei libri biblici, designa colui che ha una fede e una condotta di vita esemplari al cospetto di Dio: “«Timorato di Dio» equivale a «pio» e, per i libri sapienziali, il «timore di Dio», la «religione» è il principio e il culmine della sapienza”. A lui Dio offre la propria gratitudine in quanto è leale, fermo, fedele, buono e santo. Il termine è “frequente nell’ambiente del NT per indicare rispetto per gli dei greci e romani e per le gerarchie sociali.”.

Riferito a Cornelio il termine pio viene a indicare che egli ebbe una fede e una condotta di vita gradita a Dio, essendo profondamente rispettoso dei suoi comandamenti, per cui questo stato di vita è alla base della sua profonda riverenza verso Dio. Proprio perchè Cornelio ha un profondo rispetto per Dio, egli diviene timorato di Dio, cioè riverente verso lui.

Per Cornelio il rispetto (εὐσέβεια) e la giustizia (δικαιοσύνη) sono elementi fondanti il timore di Dio. L’uomo giusto è anche colui che osserva i comandamenti (Dt 6,24) e che si rifugia in Dio (Pv 18,10).

A tal proposito Lattanzio spiega che l’uomo giusto è colui che glorifica Dio, onorandolo per tutto quanto gli ha donato.

Dio dunque volle che l’uomo fosse tutto dedicato alla sua glorificazione; (…): è sommamente giusto infatti che l’uomo ami colui che tanto gli ha donato (…). Dio dunque ha voluto che tutti gli uomini sian giusti, che cioè amino ed onorino Dio.
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La giustizia, ci spiega sempre Lattanzio, è un’erma bifronte. Essa è composta da due facce: dall’amore e dal timore.

Lattanzio ci invita non solo ad amare Dio come un padre perchè egli ci ha creati, ci nutre e ci salva, ma anche a temerlo perchè, in qualità di signore dell’universo, ha sull’uomo il potere di vita e di morte.

Primo compito della giustizia è riconoscere Dio come genitore: temerlo come signore e amarlo come padre.

Egli infatti ci ha generati, ci ha animati con lo spirito di vita, ci nutre, ci salva.

Perciò, non solo come padre, ma anche come dominatore, può ben castigarci: ha su noi potere di vita e morte; duplice è dunque l’onore che l’uomo gli deve prestare, cioè amarlo e temerlo.

L’uomo giusto e l’uomo pio in Cornelio si identificano, perchè da entrambi scaturisce, a mo’ di chiasmo, il senso positivo del timore di Dio.

In At 10,35 nel discorso di Pietro a Cornelio si evince che è gradito a Dio chi lo teme, ossia colui che offre sacrifici spirituali nella fede in Cristo: “ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (Atti 10,35).

Si ricalca la teologia del culto spirituale gradito a Dio, descritto in 1Pt 2,5, dove ciò che conta è la consacrazione del cuore a Dio credendo nel Figlio che egli ha inviato nel mondo, il quale ci rende figli di Dio.

anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo (1Pt 2,5).

Anche Paolo in Rm 15,16 aveva annoverato nella fede alla Parola predicata dal Figlio il culto spirituale gradito a Dio “perchè i pagani divengano una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo” (Rm 15,16).

Sulla base di ciò i timorati di Dio sono coloro che accolgono con fede la buona novella predicata da Gesù, al quale sottomettono il loro spirito perchè fiduciosi del suo aiuto e, in questo loro culto spirituale, sono graditi al Padre.
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I timorati di Dio nell’A.T.

Nella storia del popolo di Israele i timorati di Dio avevano la caratteristica di non essere circoncisi, perchè non si convertivano al giudaismo, ma in loro era sviluppato il sentimento della riverenza e dell’attaccamento incondizionato a Dio. Essendo in loro vivo più il senso religioso che sacrificale, “frequentavano la liturgia della sinagoga, leggevano la Torà e osservavano i comandamenti”.

I timorati erano greci e non giudei che partecipano al sevizio sinagogale e osservano la legge senza però passare al giudaismo tramite la circoncisione. Essi sono obbligati all’osservanza del sabato e delle leggi relative ai cibi, hanno determinate prescrizioni morali e professano la fede in un solo Dio.

I timorati di Dio nella tradizione deuteronomistica

Si connotavano come coloro in cui era alto il senso della fiducia e dell’abbandono in Dio, spinti dalla certezza che Dio amava il suo popolo perchè egli ha instaurato con lui un rapporto di amicizia, sigillato dalla primitiva alleanza (Dt 10,12; 11,1; 30,16).

Al senso primitivo del timore di Dio, per cui la divinità incute tremore e terrore, si passa a una sorta di timore di Dio in senso positivo, nel senso cioè che l’uomo si abbandona amorevolmente nelle mani di Dio, teso a salvarlo grazie alla sua predisposizione del cuore volto a volere nessun altra cosa all’infuori di Dio.

Il primitivo concetto di timore si va così accostando all’«amore» (āhab), (…) esprimendo con una parola astratta l’idea di «religione»: «Che cosa chiede a te Yahweh, il tuo Dio, se non che tu tema Yahweh, il tuo Dio, che tu cammini in tutte le sue vie, che tu l’ami e serva a Yahweh, tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta l’anima tua (…)? (Dt 10,12).

In Dt 11,1 il timore di Dio esprime la propensione del fedele ad amare Dio, ad osservare le sue leggi, a riconoscerne la sua grandezza, concretizzatasi nelle sue gesta salvifiche verso il popolo d’Israele, liberandolo dalla schiavitù dell’Egitto:

Ama dunque il Signore, tuo Dio, e osserva ogni giorno le sue prescrizioni: le sue leggi, le sue norme e i suoi comandi. 2. Oggi voi – non parlo ai vostri figli che non hanno conosciuto né hanno visto le lezioni del Signore, vostro Dio – riconoscete la sua grandezza, la sua mano potente, il suo braccio teso, 3. i suoi portenti, le opere che ha fatto in mezzo all’Egitto, contro il faraone, re dell’Egitto e contro la sua terra; 4. ciò che ha fatto all’esercito d’Egitto, ai suoi cavalli e ai suoi carri, come ha fatto rifluire su di loro le acque del mar Rosso, quando essi vi inseguivano, e come il Signore li ha distrutti per sempre (Dt 11,1-4).
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Secondo la versione deuteronomistica, il timore di Dio acquista il carattere di amore reverenziale verso Dio che salva il popolo di Israele; amore che si estrinseca nel camminare secondo le sue vie e nell’osservare i suoi precetti (Dt 30,16).

Il timore di Dio “soprattutto per la scuola deuteronomistica equivale a rispettare l’alleanza, ad obbedire ai comandamenti di Yahweh, a seguire le sue vie”.

I timorati di Dio nella tradizione sapienziale

Rispetto alla tradizione deuteronomistica quella sapienziale sottolinea che il timore di Dio, equiparato all’idea di religione, “è il principio e il culmine della sapienza”.

Infatti in Pv 1,7 viene puntualizzato che la sapienza umana ha origine dal timore di Dio: “Il timore del Signore è principio della scienza; gli stolti disprezzano la sapienza e l’istruzione” (Pv 1,7). Il timore di Dio connota l’atteggiamento del sapiente, cioè di colui che cerca di corrispondere all’amore del Padre.

Il timorato di Dio è intento a piacere più a Dio che agli uomini, per cui si preoccupa di affinare le sue capacità virtuali, al fine di rendersi sempre bene accetto al Signore (Pv 9,10).

Colui che coltiva le facoltà intellettive e volitive, nell’accingersi ad osservare i precetti del Signore, fa di tutto per rendersi il più possibile gradito a Dio, divenendo in tal modo timorato di Dio.

Chi si avvicina a Dio, osservandone i suoi precetti, è un uomo sapiente, dalla cui pienezza fiorisce il timore di Dio:

Il timore di Dio può essere usato in questo senso come sinonimo di essere “retto”, “onesto”, “giusto”, “odiare ciò che è malvagio”, “stare lontani dal maligno.

Cinzia Randazzo

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Le future sinagoghe cristiane all’insegna del timore di Dio

Il presente lavoro nasce dalla constatazione che, in diverse chiese cristiane, i fedeli hanno affievolito la pratica cultuale del timore di Dio, perchè non lo vivono in piena consonanza a quella che è la volontà del Padre celeste.

Molto spesso i fedeli ricorrono a Dio per paura che Dio li castighi, nel senso che, se essi non compiono ciò che Dio vuole, egli li castiga.

Il timore di Dio è avvertito in tal modo come un comando e non come una disposizione del loro cuore ad aprirsi a Dio nella fiducia di averlo come un amico, certi che Dio li aiuta e che è dalla loro parte in qualunque circostanza si trovino.

Il secondo senso corrisponde a quello positivo del timore di Dio, il quale purtroppo scarseggia nelle nostre chiese cristiane, perchè Dio non viene considerato come un amico che aiuta l’uomo, ma come colui che ha bisogno sempre di preghiere per suscitare la simpatia e la fiducia nei suoi confronti, con lo scompenso di “manipolare” la volontà di Dio a nostro piacimento, al fine di soddisfare i nostri desideri.

A partire da tale quadro, in questo contributo cercheremo di dare delle piste di soluzione a tale problematica, ricollegandoci ad alcuni passi del vangelo che sono al fondamento di una vera e propria rinascita del vero senso da dare al timore di Dio nei nostri luoghi di culto.
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La sinagoga luogo di insegnamento e di guarigione

La sinagoga luogo di “insegnamento” del timore di Dio

Durante il suo ministero pubblico in Galilea Gesù, dopo aver attraversato il “mare di Galilea”, giunse, insieme ai suoi quattro primi discepoli, a Cafarnao ed entrò proprio di sabato nella sinagoga: “Andarono a Cafarnao e, entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise ad insegnare” (Mc 1,21).

Gesù entrò proprio di sabato nella sinagoga, perchè il giorno di sabato, all’inizio della creazione, fu consacrato da Dio per essere giorno di riposo (Gen 1,1-2,3), mentre nella tradizione ebraica viene ad essere il giorno in cui si commemora la liberazione degli ebrei dalla schiavitù degli egiziani:

L’osservanza del sabato nella narrazione biblica comincia durante il cammino nel deserto e si collega al dono della manna (Es 16), che non dev’essere raccolta nel settimo giorno: infatti il sesto Dio garantisce una doppia razione. Per questo la celebrazione del sabato porta con sé la memoria della liberazione dall’Egitto e della prova del deserto.
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Il giorno di sabato viene ricordato non solo perchè è il giorno di riposo da tutte le cose, ma anche perchè Dio ha dato il comandamento di santificare il giorno di sabato: La maggiore differenza tra Esodo e Deuteronomio si trova nel motivo del comandamento: da una parte la creazione, dall’altra la liberazione dall’Egitto”.

Sia nel primo caso come nel secondo “si tratta ancora di una imitazione di Dio: come Dio ha santificato il settimo giorno, così chi osserva il comandamento.

Sotto questo profilo il sabato “è memoria e imitazione dell’opera di Dio per la salvezza”, perchè da una parte il fedele riposa da tutte le opere mondane rinfrancando lo Spirito e liberando le energie spirituali per onorare il creatore e, dall’altra, per ricordarsi che Dio è amico del suo popolo, in quanto lo ha liberato dagli egiziani.

Il sabato quindi per gli ebrei è il giorno in cui si commemorano le gesta salvifiche di Dio; da una parte Dio ha dato la vita alla creazione preservandola dalle tenebre e, dall’altra, Dio ha dato all’ebreo la possibilità di liberarlo dal male, dai nemici.

A partire da tale quadro l’ebreo imita il riposo di Dio, rivivendo il comandamento dell’amore verso Dio. Egli identifica la Torah col comandamento dell’amore.

Insieme, le due tavole ci insegnano cosa vuol dire il duplice comandamento dell’amore: ama Dio con tutte le tue forze e ama il prossimo tuo come te stesso.
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L’ebreo ama Dio con tutte le forze per tutto ciò che egli ha creato e per quanto ha fatto per salvarci dalle potenze nemiche.

Amando Dio al di sopra di ogni cosa l’ebreo vive la pratica cultuale del timore di Dio, perchè ripone la sua fiducia in lui per tutto quello che ha fatto per la sua salvezza.

Pertanto Gesù entra proprio di sabato nella sinagoga per onorare il Padre celeste in questo giorno, insegnando le cose che il Padre gli ha comandato di dire.

Gesù, secondo la testimonianza di Marco in 1,22, insegnava come colui che possiede autorità perchè in lui risplende la sapienza del Padre, in quanto compie e dice tutto quello che il Padre gli comanda di dire e di fare, diversamente dagli scribi, la cui sapienza proviene loro non da Dio ma dalle accademie rabbiniche: “Ed erano stupiti del suo insegnamento, perchè insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi” (Mc 1,22).

Di nuovo Gesù venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: «Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?». E si scandalizzavano di lui.

Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua (Mc 6,1-4).
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La sinagoga è il luogo che accoglie la sapienza del Padre che si manifesta nel Figlio, perchè solo al Figlio il Padre ha dato questo privilegio, essendo fin dall’eternità unito al Padre.

Egli palesa questa sua filiale forma di attaccamento al Padre nel timore di Dio, dal momento che soltanto lui possedeva la sapienza del Padre ancora prima della creazione nel sabato primordiale.

Sotto questo profilo il sabato temporale, cioè il settimo giorno, che corrisponde al periodo in cui Gesù entra nella sinagoga, è tempo in cui diviene tangibile nella storia il vero timore di Dio che si estrinseca nell’insegnamento del Figlio.

Il sabato storico è tempo storico del primordiale timore di Dio che il Figlio viveva nei confronti del Padre nel sabato protologico e viceversa.

Come la sapienza del Padre si è manifestata nel settimo giorno alle origini della creazione, quando il Padre creò e ordinò tutte le cose che sono nel mondo secondo un suo sapiente disegno, – disegno che era stato progettato dal Padre insieme al Figlio che era sapienza del Padre ab aeterno- così nel sabato soteriologico , che è il nuovo tempo storico della salvezza originatosi con la venuta di Cristo, la sapienza del Padre si ri-manifesta nel Figlio nella sinagoga, luogo in cui si estrinseca il pieno attaccamento al Padre del Figlio (timore di Dio) attraverso il suo sapiente insegnamento.

Sotto questo profilo la sinagoga diviene luogo concreto della realizzazione storica del sabato protologico nel sabato soteriologico, dove la sapienza ab aeterna del Figlio, in unione stretta con quella del Padre, si rende presente storicamente nella sua attività didattica proprio all’interno della sinagoga.
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La sinagoga luogo di guarigione: segno tangibile della realizzazione del timore di Dio in Cristo Gesù viveva la pratica cultuale del timore di Dio perchè sapienza incarnata del Padre.

Gesù mostrava la sua divina autorità anche allo spirito immondo che aveva preso dimora in un uomo:

Allora un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mise a gridare: «Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio». E Gesù lo sgridò: «Taci! Esci da quell’uomo». (Mc 1,23-25).

Egli comandava con autorità su questo spirito immondo e gli ubbidiva perchè Gesù era la personificazione vivente del timore di Dio, in quanto in lui era vivo e permanente il suo amore filiale verso il Padre.

Infatti lo spirito immondo che era in quell’uomo, all’udire il comando di Gesù di uscire da quell’uomo, uscì: “E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui” (Mc 1,26).

Il miracolo della guarigione dell’indemoniato avviene all’interno della sinagoga, luogo in cui si manifesta l’intimo attaccamento del Figlio verso il Padre e viceversa (timore di Dio), in quanto la sinagoga e, insieme a lei anche coloro che erano presenti, sono i diretti testimoni oculari del timore di Dio vissuto intimamente dal Figlio verso il Padre e realizzatosi nella guarigione dell’indemoniato.

Grazie al timore di Dio, che il Figlio viveva in unione stretta con il Padre, divenne possibile a Cristo di scacciare lo spirito immondo dall’indemoniato, suscitando così negli astanti timore e meraviglia:

Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!» (Mc 1,27).
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Quando Gesù entrò prossimamente in giorno di sabato nella sinagoga manifestò di nuovo il suo fervente attaccamento al Padre, nel compiere la guarigione ad un uomo dalla mano inaridita: “Entrò di nuovo nella sinagoga. C’era un uomo che aveva una mano inaridita, e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo” (Mc 3,1-2).

Per l’amore e per la salvezza di quell’uomo egli guarisce la sua mano inaridita proprio in giorno di sabato, anteponendo il precetto dell’amore al di sopra della casistica sabbatica, che proibiva di fare alcunchè nel giorno di sabato.

Anteponendo l’amore per la vita al di sopra dello stesso precetto sabbatico, Gesù mostra ai presenti, compresi i farisei induriti nel loro cuore, di essere il vero timorato di Dio.

In lui si rispecchia l’amore di Dio verso l’uomo bisognoso di aiuto e di salvezza, non solo coniugando al precetto sabbatico l’amore per la vita, ma anche esplicando tale amore proprio nel giorno di riposo da tutte le occupazioni mondane, perchè egli ha realizzato la volontà di Dio che vuole il bene di tutti.

Egli disse all’uomo che aveva la mano inaridita: «Mettiti nel mezzo!». Poi domandò loro: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?».

Ma essi tacevano. E guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell’uomo: «Stendi la mano!». La stese e la sua mano fu risanata. (Mc 3,3-5).
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Di nuovo Gesù sempre di sabato insegnava nella sinagoga, sbalordendo tutti quelli che l’ascoltavano in quanto la sua sapienza non gli proveniva dalla perizia dei suoi ragionamenti, ma da Dio.

Alla parola insegnata e predicata nella sinagoga conseguivano i fatti miracolosi, nei quali la Parola si incarnava.

Gesù manifestava così nel connubio della parola predicata con i fatti miracolosi il suo profondo timore verso Dio (Mc 6,1-6).

All’azione faceva precedere la parola, per cui la professione della Parola di Dio si compiva nella prassi di vita del Figlio, segno concreto ed evidente del suo filiale timore verso Dio, esternato dapprima nella predicazione e poi nell’azione guaritrice del Figlio.

Secondo la testimonianza di Luca in 4,16-20 Gesù, entrando di sabato nella sinagoga a Nazareth di Galilea, manifesta a tutti che egli è l’inviato di Dio perchè il Padre ha posto il suo spirito su di lui per portare a compimento il suo disegno di salvezza verso l’uomo; egli è venuto nel mondo per annunziare il lieto messaggio di salvezza e per compiere la salvezza con le opere, facendo capire ai presenti che egli è chiamato dal Padre a personificare la pratica del timore di Dio, in quanto tutta la sua vita è orientata a rendere onore al Padre con le parole e con i fatti quotidianamente.

Venne a Nazaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annunzio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore (Lc 4,16-19).
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Tornando a Cafarnao Gesù guarisce nella sinagoga un uomo posseduto da uno spirito immondo, per cui la sinagoga diviene luogo del compimento del timore di Dio in Cristo, perchè in lui la parola di Dio diviene gesto concreto di salvezza (Lc 4,33-36).

Ancora una volta Gesù nella sinagoga esprime il suo vitale attaccamento al Padre e quindi il suo perfetto timore di Dio, guarendo una donna curva in giorno di sabato; in tal modo egli adempie il precetto dell’amore per Dio con la guarigione fisica di questa donna.

Stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia». Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio (Lc 13,10-17).

Attraverso l’insegnamento e le guarigioni di Gesù si espleta nella sinagoga il sabato soteriologico; copia vivente e tangibile del sabato protologico, dove il Figlio, essendo tutto dedito al Padre e viceversa, consumava ab aeterno il suo vero timore verso il Padre.

Cinzia Randazzo

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I monti dellaGalilea

In questo contributo, che sussegue al precedente, ci accingiamo a presentare le montagne della Galilea che, per il loro alto significato teologico, destano attenzione ai visitatori che sono intenzionati ad assaporare questi encomiastici luoghi biblici di impareggiabile memoria.
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I monti nei pressi del lago di Tiberiade

Il monte a cui fa riferimento Marco in 3,13 è quello che si erge sovrano al di là del lago di Tiberiade:

Gesù intanto si ritirò presso il mare con i suoi discepoli e lo seguì molta folla dalla Galilea (…) 13. Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui (Mc 3,7.13).

Secondo la costituzione geografica del lago a forma di cetra perchè “la sua lunghezza massima da nord a sud è di 21 km e la larghezza di 11 km da est a ovest, con una superficie di circa 65 km2 e una profondità massima di circa 45 m” , il monte indicato da Marco, sul quale salì Gesù, potrebbe essere il Ğebel Kancan, la cui vetta raggiunge gli 855 metri, cioè la parte più alta del terreno, la cui base poggia sulla pianura del lago, il quale “ha solo una piccola spiaggia che si allarga a nord-ovest per formare la pianura di Genezaret”.

Gebel in arabo dialettale “denota una montagna o un’elevazione del terreno di altezza considerevole”, venendo a coincidere con la parte più alta del lago di Tiberiade, collocato in terra di Canaan (Palestina).

Molto probabilmente Gesù salì proprio su questa montagna, formatasi dal rialzamento del terreno adiacente al lago di Tiberiade.

Su questo monte Gesù istituisce i dodici apostoli, ai quali conferisce l’onere di predicare e di scacciare i demoni, imponendo loro i nomi.

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Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perchè avessero il potere di scacciare i demoni. Costituì dunque i dodici.

Simone, al quale impose il nome di Pietro; poi Giacomo di Zebedeo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanerghes, cioè figli del tuono; e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda Iscariota, quello che poi lo tradì (Mc 3,14-19).

Tra quelli che Gesù chiamò e andarono con lui sul monte, egli ne scelse dodici.

Alla chiamata di Gesù segue la elezione dei dodici.

A ognuno di loro impose il nome, indice dell’incarico e della specifica missione affidati loro da Gesù.

La missione data da Gesù a ognuno di loro procede dal nome che Gesù scelse per ognuno di loro.
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L’istituzione dei dodici sul monte è scandita da questi tre elementi: chiamata, elezione, incarico.

Il Ğebel Kancan viene ad essere il luogo teologico non solo della chiamata degli apostoli, perchè sulla base della loro fede egli scelse quelli e non altri, ma anche della loro specifica missione, riassumibile nell’incarico affidato a loro da Gesù, che è quello di predicare la buona novella e di scacciare gli spiriti maligni.

Su questo monte pertanto, per volontà del Maestro, nasce la chiesa ministeriale, la piccola cerchia ristretta dei fedelissimi di Gesù, perchè solo ai dodici Gesù ha dato il potere di compiere le sue speciali funzioni: quella di predicare e di scacciare i demoni.

Gesù anticipa il mandato vero e proprio degli apostoli che prende piede all’indomani della sua risurrezione (Mc 16,15-20), perchè dopo che risorse Gesù, affidando lo Spirito ai dodici, dette loro l’incarico di predicare in tutto il mondo il kerygma e il potere di togliere i demoni.

Tale monte quindi viene ad essere il luogo di origine della chiesa dei dodici, perchè su questo spuntò questo piccolo germoglio che si estenderà in dimensioni maggiori nella chiesa primitiva, descritta negli Atti degli apostoli (At 1-4).
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Il monte diviene per i discepoli il luogo propizio per la preghiera, della quale si nutre la vita dello spirito:

E subito costrinse i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, a Betsaida, finchè non avesse congedato la folla. Quando li ebbe congedati, andò sul monte a pregare (Mc 6,45-46).

Gesù dimostra di essere unito al Padre nello Spirito, a tal punto che fa precedere la preghiera al Padre prima di salire in barca insieme ai discepoli, per raggiungere l’altra riva vicino a Betsaida.

Forte è il senso del timore di Dio in Gesù, in quanto egli è attaccato al Padre nello Spirito, prediligendo questa sua unica e singolare prerogativa con la preghiera.

Questo monte è il luogo in cui Gesù nobilita la vita dello Spirito mediante la preghiera, iniziando a manifestare il suo singolare timore per Dio; timore che raggiungerà la sua forma più alta nel Getsemani – dove Cristo, ai piedi del monte degli Ulivi, inizia a “patire” per amore del Padre – e il suo culmine sul Golgota con la morte sulla croce.
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Il discorso della “montagna”

Prima di salire sulla “montagna” Gesù si aggirava a Cafarnao, presso il mare della Galilea e precisamente nella zona di Zabulon e Neftali; ambedue posti nella Galilea orientale :

lasciata Nazaret, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zabulon e di Neftali, perchè si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: «Il paese di Zabulon e il paese di Neftali, sulla via del mare, al di là del Giordano, Galilea delle genti; il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grnde luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata» (Mt 4,12-16).

Il territorio di Neftali “confinava a ovest con Aser, a sud con Zabulon e Issacar, e a est era delimitato dal fiume Giordano e dal lago di Tiberiade”, comprendendo al suo interno Tabga e il monte delle beatitudini, posto a ovest rispetto alla città di Cafarnao , ai cui piedi si estendeva il territorio di Zabulon.
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Dalla testimonianza di Marco Gesù, prima di salire sulla montagna, percorreva il mare della Galilea e camminava attorno alla Galilea (Mt 4,18.23).

Da questi dati si può presumere che la “montagna” sulla quale Gesù salì è quella che si erge in prossimità del lago di Tiberiade, alla quale è possibile arrivare, partendo da Tabga, posta proprio ai piedi del cosiddetto “monte delle beatitudini”.

Tabigah è un luogo “vicino al lago di Genezaret, poco più di 3 km a sud-ovest di Cafarnao, a nord di Hirbet el-Oreimah e ai piedi del monte delle Beatitudini”.

Gesù sale su questo monte perchè vede intorno al mare di Galilea molta folla. Egli, salendo sul monte, si allontana dalla folla e, rimanendo solo con i suoi discepoli che gli si avvicinarono, li ammaestra.

La montagna così diviene il luogo di insegnamento di Gesù, perchè lì il maestro insegna loro i contenuti fondamentali della buona novella che egli apporta nel mondo con la sua venuta sulla terra.

La buona novella insegnata da Gesù non è in contraddizione con l’antica, ma in linea di continuità con essa: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti, non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17).

Attorno a questo perno centrale ruota tutto il discorso della montagna che si divide in due parti: la prima parte è incentrata sui concetti fondamentali del nuovo regno di Dio, sui quali si fonda il suo ammaestramento (Mc 5,1-47), mentre la seconda parte è imperniata sulla prassi di vita che, alla luce del suo insegnamento, diviene regola di vita (Mt 6,1-7,28).
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La montagna è quindi il luogo in cui il maestro impartisce ai discepoli pericopi di edificazione spirituale e pratica.

Sulla montagna Gesù insegna tramite le pericopi di edificazione che sono di due tipi:

anagogico-spirituale anagogico-pratico. Il primo ordine di pericopi, di stampo spirituale, è il sapere da Gesù che verranno ricompensati coloro che vivono beati seguendo la vita dello Spirito e la vita pratica della carità, che si estrinseca nell’operare la pace e nell’essere perseguitati a causa della giustizia.

La seconda pericope spirituale è il venire a conoscenza, dalle parole del Maestro, che per essere sale della terra e luce di vita è indispensabile che la luce della verità risplenda nei cuori e nei fatti di coloro che l’hanno ricevuta (Mt 5,13-16).

La terza pericope dello stesso genere, direttamente espressa dalla bocca di Gesù, insegna che Gesù è venuto a dare compimento alla legge.

Egli dimostra questo affermando che in lui si compie la nuova giustizia, riassumibile nella volontà e nella prassi della riconciliazione e dell’amore verso tutti, specialmente verso i nemici, alla stessa stregua del Padre celeste che estende il suo amore verso tutti, indipendentemente dalle mancanze e dai soprusi di ogni singola persona (Mt 5,17-47).

Queste pericopi (le prime) sono al fondamento per la realizzazione di quelle pratiche (delle seconde).

Infatti l’elemosina compiuta in segreto ha più valore di quella compiuta in pubblico, perchè egli realizza la nuova giustizia in quanto è convinto che al fondamento della stessa c’è Cristo: è lui che ricompensa sulla base della fede in Lui.

Per questo motivo l’elemosina, la preghiera e il digiuno vanno fatti non per farsi vedere dagli altri, ma per la fede in Cristo che, vedendo in segreto le opere del benefattore, dà a lui una mercede sovrabbondante (Mt 6,1-6.16.18).
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Per quanto riguarda la preghiera Gesù insegna come pregare Dio padre che è nei cieli, evitando di sprecare vane parole perchè lui sa ciò di cui abbiamo bisogno.

Il perdono è al fondamento della nuova giustizia, il quale sta alla base dell’esercizio di un culto gradito al Padre: il fedele nella preghiera del Padre nostro chiede al Padre di ottenere la remissione dei peccati e il Padre glielo concede, se anche lui ha perdonato le colpe degli altri.

Nella pratica del perdono, della riconciliazione e dell’amore si manifesta la vera fede del credente che ripone fiducia in questi tesori che mai saranno consumati dal tempo (Mc 6,19-21). Il fedele può accumulare questo genere di tesori solo se il suo spirito è predisposto ad accoglierli (Mc 6,22-23).

In tal modo il fedele compie e realizza il regno di Dio e la sua giustizia e, conseguentemente, gli verranno dati dal Padre celeste tutte le cose di cui ha bisogno (Mt 6,25-34). Infatti i veri discepoli sono coloro che compiono fattivamente la volontà del Padre, per cui il fedele è chiamato ad evitare questa serie di comportamenti:

non giudicare, perchè chi giudica verrà a sua volta giudicato nella stessa misura. Non cercare di persuadere persone non intenzionate ad accogliere la buona novella (Mt 7,6).

Coloro che accolgono il regno di Dio e la sua giustizia quando pregano riceveranno dal Padre quanto chiedono (Mt 7,7-11) e non faranno agli altri ciò che non vogliono che sia fatto su di loro (Mt 7,12).

Essi sono coloro che hanno scelto la via del bene che è stretta, perchè pochi vi entrano (Mt 7,13-14).

Questi vengono identificati da Gesù con i veri discepoli che seguono la via accordata loro dal Padre celeste, guardandosi e allontanandosi dai falsi profeti che producono frutti che conducono alla morte (Mt 7,15-20).
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La montagna è quindi il luogo in cui il maestro impartisce ai discepoli pericopi di edificazione spirituale e pratica, improntate all’immagine del nuovo regno: la nuova legge, apportata dal Maestro, diviene cibo di vita eterna se vissuta, secondo le regole pratiche che Gesù insegna ai discepoli nella seconda parte del suo discorso.

Sulla base di ciò queste pericopi di vita pratica divengono copia vivente di quelle spirituali, perchè le prime sono le dirette copie delle seconde, per cui i poveri di spirito, gli afflitti, i miti, i misericordiosi, gli aspiranti della giustizia, i puri di cuore, gli operatori di pace e i perseguitati vengono denominati beati in quanto, sull’orma dei profeti, avranno una grande ricompensa nei cieli; a loro spetta una mercede sovrabbondante (Mt 5,3-12).
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La trasfigurazione

Il monte sul quale avvenne il miracolo della trasfigurazione è molto probabilmente identificato col monte Hermon, dal momento che Gesù, prima di salire sul monte, si aggirava attorno alla città di Cesarea di Filippo in Galilea per annunziare la sua passione.

Questa città è “collocata sulle pendici meridionali del monte Ermon, presso una delle sorgenti del fiume Giordano”.

Il monte Hermon si erge imponente sulla città, essendo la cima più elevata di tutto il Vicino Oriente, svettando di 600 metri su ogni altra parte dei Monti del Libano e dominando sulla pianura di Basan e l’alta valle del Giordano.

Sul monte Gesù si è trasfigurato davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni, divenendo le sue vesti candide come la neve. La potenza del suo Spirito ha trasformato le sue vesti, rendendole candide, simboli del suo corpo e del suo spirito immuni da ogni forma di peccato.

Le vesti attestano che solo Gesù possiede questo singolare e unico privilegio, dettato dalla sua figliolanza divina.

Insieme a Gesù apparvero Elia con Mosè che discorrevano con lui.

Apparvero solo questi due profeti, perchè il primo gode della gloria di Dio in quanto è salito al cielo sopra un carro di fuoco (2Re 2,11) e il secondo in quanto è stato il diretto esecutore della Parola di Dio, in quanto a lui solo Dio dette le tavole della Torah (Es 20,2-18).
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L’episodio della trasfigurazione si collega a quello del battesimo perchè, dalla nube che avvolse nell’ombra i presenti, si sentì una voce che proclamava Gesù essere il figlio prediletto, invitando gli apostoli ad ascoltarlo (Mc 9,7-8).

Questa voce, sulla falsariga del battesimo, proviene dal Padre, il quale esorta gli apostoli ad ascoltare quanto suo figlio prediletto diceva loro.

Il fatto stesso che Gesù parlava con Elia e con Mosè attesta che questi sono i sapienti dell’antica legge, nei quali risplende la sapienza dell’antica legge e dell’antica giustizia: ambedue parlano con Gesù perchè lo precedono, essendo i precursori della sua nuova legge e della sua nuova giustizia.

A tal proposito Lenhardt afferma che questo ascoltatelo – presente anche nei due altri racconti di Marco e Matteo – dimostra che l’elezione di Gesù Cristo è perchè si ascolti colui che è il figlio benamato e, secondo la risonanza con il capitolo 8 del libro dei Proverbi, colui che è, per i cristiani, l’incarnazione della Torà di Israele o, per riprendere la formula tradizionale, della “saggezza di Israele.

Infatti le vesti splendenti sono possedute solo da Gesù e non da Mosè ed Elia, perchè solo in Lui rifulge in pienezza la sapienza del Padre, per cui Mosè ed Elia, con i quali Gesù parlava, sono l’incarnazione della sapienza anticotestamentaria, nei quali sono insiti, per dirla con Giustino, i semi del Logos (Cristo preesistente).

Da questo punto di vista Gesù parlava con Mosè e con Elia perchè, in qualità di eletti, essi rappresentano la sapienza anticotestamentaria, cioè la Torah che non è in contraddizione ma in linea di continuità con la nuova sapienza, incarnatasi in Cristo; nuova sapienza che rappresenta non una cesura con la Torah, ma il compimento della Torah stessa.

A partire da tale quadro ascoltare Gesù secondo il messaggio della trasfigurazione è dunque illuminarsi della sua Torà e della sua pratica.

Così facendo potremo essere veri imitatori di Dio sull’esempio del Cristo.

Cinzia Randazzo

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Le montagne in Palestina

I monti della Palestina detengono un proprio e specifico significato teologico, a seconda della loro collocazione a nord, al centro o al sud della Palestina.

Percorriamo in un primo paragrafo le catene montuose situate nella Giudea, a sud della Palestina, per poi passare a quelle della Galilea (nord), e infine a quelle della Samaria (centro).

Ebron

Dopo che l’angelo annuncia il concepimento di Maria per opera dello Spirito Santo, Maria s’incammina verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda: “In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna (ὀρεινήν) e raggiunse in fretta una città di Giuda” (Lc 1,39).

Il termine greco ὀρεινός indica non solo la zona montagnosa ma anche quella collinare.

La zona montuosa nella Giudea si colloca sul suo versante settentrionale e centrale, essendo costituita da due catene distinte; l’una, comprendente Efraim (Betel), situata nella parte nord-ovest della regione, mentre l’altra, che si estende nel territorio di Giuda, è situata, sempre a levante, nella parte centrale della Giudea.
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Data la vastità di estensione di queste due grandi catene montuose, riteniamo opportuno puntualizzare che i geografi dividono i monti della Giudea in tre regioni: i monti di Ebron, che partono dal nahal Beer Sheva, una quarantina di chilometri a sud di Ebron, e terminano poco prima di Betlemme; la sella di Gerusalemme, che approssimativamente si estende da Betlemme fino a parecchi chilometri a sud di Ramla; e i monti di Betel, che giungono fino al wadi Sereda.

Dalla descrizione che ci dà Luca, la montagna è situata nella regione di Giuda, la quale è molto probabilmente identificabile con quella dell’Ebron; conseguentemente la città in cui Maria si recò potrebbe essere stata proprio Ebron, perchè essa è una delle città centrali nella regione collinare meridionale di Giuda, poco più di 30 km a sud-ovest di Gerusalemme.

È situata su uno dei punti più alti (ca. 925m s.l.m.) della dorsale montuosa centrale ed è una delle più antiche città ininterrottamente abitate della Palestina.

Si trova in un’area con abbondanti riserve d’acqua costituite da pozzi e sorgenti ed è un centro regionale di coltivazione della vite e dell’olivo.

Quando Maria, entrando in casa di Zaccaria, saluta Elisabetta il bimbo, che Elisabetta portava nel grembo, fece sentire la sua voce piena di letizia: Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo.

Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!

A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo (Lc 1,41-44).
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Elisabetta stessa, avvertendo il sussulto di gioia emanato dal bimbo che portava nel suo grembo, si rese consapevole che Maria era la benedetta fra tutte le donne insieme a colui che Maria aveva nel grembo.

La città di Giuda viene ad essere dapprima, secondo Luca, il luogo in cui è stato concepito Giovanni Battista, il precursore di Gesù e dopo il luogo dove nacque il Battista e dove le venne posto il nome di Giovanni, per cui in tutta la catena montuosa della Giudea proliferavano le notizie della nascita, dell’imposizione del nome Giovanni al bambino, figlio di Elisabetta e di Zaccaria e del miracolo avvenuto su Zaccaria, il quale, quando scelse di dare il nome Giovanni al bambino, egli incominciò a parlare perchè prima era muto (1,59-66).

Un ulteriore indizio che comprova che la città di Giuda, luogo natale del Battista, sia collocata nei pressi del monte Ebron è il fatto che Maria rimase presso Elisabetta fino alla nascita e alla circoncisione di Giovanni il Battista, perchè dopo tornò a Nazareth in Galilea (Lc 1,26.56).

Usualmente, secondo la Legge del Signore, il bimbo veniva circonciso nel tempio di Gerusalemme per offrirlo al Signore.

Gerusalemme infatti non è molto distante né da Ebron e né da Betlemme, città in cui nacque Gesù, perchè entrambe sono ubicate nella regione di Giuda, per cui questo è un ennesimo indizio per supporre che la “città di Giuda” fosse proprio Ebron.
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Viene così resa credibile che la città di Giuda fosse proprio Ebron a motivo del fatto che anche dal punto di vista teologico Giovanni Battista, essendo il precursore di Gesù, non poteva nascere in una città distante da Betlemme, ma in una città vicina come quella di Ebron.

Infatti Ebron è collocata a sud di Betlemme, segno premonitore della inferiorità del Battista nei riguardi di Gesù: “viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali” (Lc 3,16).

Ermon

Un altro monte viene menzionato da Matteo in occasione della tentazione di Gesù da parte del diavolo, dopo che Satana depose Gesù sul pinnacolo del tempio :

Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, prostrandoti, mi adorerai».

Ma Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto: «Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto».

Allora il diavolo lo lasciò ed ecco gli angeli gli si accostarono e lo servivano (Mt 4,8-11).
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Il monte altissimo, su cui viene condotto Gesù, sarebbe da identificare con il monte Ermon, la cui vetta con tre picchi al limite meridionale della catena montuosa dell’Antilibano, è “alta 2814 m s.l.m.

E’ la cima più elevata di tutto il Vicino Oriente, svettando di 600 metri su ogni altra parte dei Monti del Libano e dominando sulla pianura di Basan e l’alta valle del Giordano.

Dalla cima di questo imponente monte si possono ammirare le bellezze naturali e archeologiche di tutto il vicino Oriente, per cui ciò è un indizio credibile per identificare la montagna su cui Gesù venne portato dal diavolo.

Un particolare merita di essere puntualizzato: il diavolo fa vedere a Gesù dalla cima di questo monte tutti i regni del mondo, e questi regni sono direttamente ammirabili dal Monte Ermon:

Per la sua posizione al centro del territorio siro-palestinese, l’occhio dell’osservatore che si trovi sulla più alta delle sue tre cime principali (2759 m sul livello del Mediterraneo) abbraccia un panorama estesissimo: da Tiro sino al Carmelo, i monti della Galilea e della Samaria, dal lago di Tiberiade sino al Mar Morto, le steppe della Transgiordania e la regione dei Drusi.

“I regni del mondo” è un’espressione volta a indicare la vastità dei possedimenti e dei tesori riposti nell’Oriente antico; tutto ciò non è visibile dal monte Tabor, la cui visuale è ristretta alla terra di Canaan, terra promessa che Mosé vede dall’alto del monte Tabor per volontà di Dio:

In compenso della dolorosa esclusione di Mosè dalla Terra Promessa, la Bibbia interpreta come un gesto amichevole di Dio il fatto che, prima della morte, abbia potuto contemplarla da lontano, dall’alto del Pisgāh, una delle cime del monte Nebo che fa parte della catena degli Abarim, estendentesi lungo la costa orientale del mar Morto.

Da tale altura la vista non raggiunge in realtà l’intera estensione geografica della Terra Promessa, fino a Dan e Neftali al nord e al Mediterraneo a ovest, come dice letteralmente Deut 34,1-3 (…).

Mosè morì su quell’altura, «nel paese di Moab», come malinconicamente osserva Deut 34,5.

Un ulteriore indizio rende credibile che il monte, sul quale Gesù viene portato dal diavolo, non è il Nebo perchè, secondo la testimonianza di Matteo, Gesù si ritira in Galilea (Mt 4,12).

Il fatto che Gesù torna in Galilea non inficia in nessun senso che il diavolo lo abbia condotto sul monte Hermon, anzi tale monte facilita la sua discesa verso Cafarnao in Galilea, mentre invece se Gesù fosse stato condotto sul Nebo avrebbe dovuto attraversare il Giordano e parte della Giudea per arrivare in Galilea, ma siccome non c’è alcuna testimonianza in proposito dagli evangelisti è preferibile optare verso la prima ipotesi.

Pertanto questo monte permette a Satana di mostrare a Gesù tutti i regni e le ricchezze che questi possedevano.

Da questo monte Gesù notava la enorme ricchezza e la vastità dei regni del vicino Oriente.

Tale panorama permise a Satana di invertire il culto a Dio, cercando di persuadere Gesù di rivolgere a lui il culto in cambio del possesso di questi regni.

La risposta di Gesù è negativa.

Egli rifiuta Satana e la sua proposta di sottomissione a lui, perchè a Dio solo viene tributato il vero culto e Lui solo è degno di adorazione. Egli rifiuta Satana non in forza del suo libero arbitrio, ma in forza dei comandamenti che Dio ha dato al suo popolo (Dt 6,13).

Con questa risposta Gesù si appoggia al comandamento del Padre per ridare valore al culto “sabbatico”, cioè al culto che Egli rivolge quotidianamente a Dio come gli ebrei in giorno di sabato, i quali adorano Dio e si prostrano a lui compiendo un servizio per Dio e non per il mondo.

In Gesù rifulge il concetto del timore di Dio in senso ascendente: il timore di Dio per l’uomo, cioè il suo prendersi cura dell’uomo e della sua iniziativa di aiutarlo si compie in Cristo perchè Cristo, nel suo diniego a Satana, ha mostrato all’uomo e a Satana il suo filiale e unico attaccamento al Padre.

La Torah, secondo Manini, riassume il contenuto di fondo del precetto del sabato, strettamente connesso alla virtù del timore di Dio; timore che Gesù adempie nella risposta a Satana: “Si tratta ancora di un’imitazione di Dio: come Dio ha santificato il settimo giorno, così chi osserva il comandamento”.

Il sabato rappresenta il culmine dell’attaccamento di Dio al suo popolo; conseguentemente chi osserva il precetto del sabato imita Dio, comportandosi come lui: il sabato è imitazione di Dio: il Signore libera il popolo e di sabato il padrone dà riposo a persone e animali; è un giorno in cui l’uguaglianza prevale sulle dimensioni sociali (…). Il sabato è memoria e imitazione dell’opera di Dio per la salvezza.

In poche parole la Torah, incluso il precetto del sabato, ci dà le fondamenta o le linee basi, a partire dalle quali è possibile vivere il timore di Dio, ovvero l’amore per Dio: Insieme, le due tavole ci insegnano cosa vuol dire il duplice comandamento dell’amore: ama Dio con tutte le tue forze e ama il prossimo tuo come te stesso.

Questa forma di timore di Dio Gesù la adempie nella risposta a Satana.
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Il monte degli Ulivi

Rimandiamo per la descrizione topografica di questo monte alla mia precedente monografia.

Gesù, arrivato nei pressi di questo monte, dette ordine a due discepoli di andare nel villaggio collocato di fronte a loro, perchè lì c’era un asino legato, l’unico che ancora non aveva portato alcuna persona su di sé, per condurlo a lui (Mc 11,1-6).

I discepoli fecero come Gesù aveva loro comandato e condussero l’asino da lui.

Il monte degli Ulivi è perciò il luogo in cui Gesù prepara il suo ingresso in Gerusalemme, perchè quando l’asino giunse da lui, da lì Gesù partì su questo per entrare in Gerusalemme.

A partire da tale quadro il monte degli Ulivi detiene un significato teologico, perchè diviene il luogo di preparazione per l’entrata di Gesù nel tunnel della sua passione.

Il monte dunque prepara la via che conduce Gesù all’ingresso nella città santa, dove tutti acclamano la sua messianicità, in vista della consumazione della sua pasqua.

Il monte degli Ulivi, sempre secondo i vangeli, è anche il luogo in cui Gesù inizia la sua passione: Giunsero intanto a un podere chiamato Getsemani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni (…) (Mc 14,32-42).

Alle pendici del monte degli Ulivi, nel Getsemani , Gesù inizia la sua passione perchè la sua anima è triste fino alla morte. Gesù predica la sua morte e, prima che giungesse a tale podere, predisse il rinnegamento di Pietro (Mc 14,30-31).

Il rinnegamento di Pietro, predetto da Gesù in prossimità del monte degli Ulivi (Mc 14,26), racchiude un senso simbolico-teologico: esso esprime il rinnegamento, da parte dell’umanità, della Verità incarnatasi in Cristo.
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Gesù, proprio nel Getsemani, “collocato ai piedi del monte degli Ulivi”, è colto dalla paura e dall’angoscia perchè percepisce prossima la sua morte; per tale motivo si getta per terra e inizia a pregare per non cadere in tentazione, invitando Pietro, Giacomo e Giovanni a vegliare insieme a lui.

Gesù conservò intatto il suo attaccamento al Padre anche al culmine della sua più profonda angoscia perchè sapeva di dover morire, restando sveglio e pregando il Padre, affinchè alcun demone s’impossessasse della sua anima.

In Gesù restò intatto il suo timore verso il Padre proprio e specialmente all’apice della sua più profonda angoscia.

Gesù si accorge della debolezza dei discepoli perchè non rimangono svegli ma si addormentano, per cui la loro anima è in preda alle passioni e, conseguentemente, fluttuante è il loro timore verso Gesù : Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: “Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole.

Allontanatosi di nuovo, pregava dicendo le medesime parole.

Ritornato li trovò addormentati, perchè i loro occhi si erano appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli.

Venne la terza volta e disse loro: «Dormite ormai e riposatevi! Basta, è venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori.

Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino” (Mc 14,37-42).

Gesù, alla base del monte degli Ulivi, sperimenta non solo la desolazione morale, perchè sente l’abbandono del Padre a livello interiore e anche fisico “cadono gocce di sangue” , ma anche psichica, dal momento che si rende conto che Giuda si avvicina a Gesù per arrestarlo e farlo sentire abbandonato da tutti. Infatti tutti fuggirono, abbandonatolo (Mc 14,43-52).

Per Gesù, quindi, a partire da tali vicende, il monte degli Ulivi fu il luogo di inizio non solo della sua passione morale, ma anche di quella fisica. I due episodi, quello dell’angoscia di Gesù nel Getsemani e quello dell’arresto di Gesù, ne sono la prova tangibile e ne comprovano gli effetti in modo evidente.

Inoltre il monte degli Ulivi diviene il luogo del superamento della passione di Gesù, perchè ivi Gesù tornò in cielo dal Padre (At 1,9-12). Luca attesta che l’ascensione avvenne sul monte degli Ulivi insieme agli apostoli.

Sulla base di tali avvenimenti, il monte degli Ulivi scandisce in tre tappe il suo soggiorno in Gerusalemme:

preparazione della passione (ingresso in Gerusalemme)

inizio della passione (angoscia e arresto nel Getsemani)

superamento della passione con l’ascensione.

Cinzia Randazzo

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