di Maurizio Siciliano
Il contesto ipercompetitivo e globalizzato delle economie più sviluppate, ha prodotto anche
una profonda trasformazione dei tradizionali compiti affidati alle funzioni HR delle
aziende. Negli ultimi 15 anni, queste funzioni da una logica di amministrazione e controllo,
sono passate ad una logica di sviluppo e collaborazione strategica. Sia nelle grandi imprese
che nelle piccole e medie soprattutto, il capitale umano ha assunto un ruolo di risorsa
critica, superiore alle risorse tecnologiche, finanziarie ed economiche. Pertanto, oggi la
funzione HR, che sia integrata in azienda, soprattutto nelle medie e grandi, o sia gestita in
outsourcing, come nelle piccole, ha il compito fondamentale di valorizzare il capitale
umano esistente ed integrarlo con ulteriori talenti, funzionali allo sviluppo strategico
deciso dall’impresa. Infatti, in questo approccio il vantaggio competitivo di un’impresa è
costruito sulle persone che ne fanno parte, attraverso le competenze di cui sono depositarie
e della loro disposizione a coinvolgersi nell’impresa stessa. Risulta pertanto evidente, che il
recruitment e l’inserimento di persone che hanno le competenze e le motivazioni ad
eccellere nei diversi ruoli all’interno dell’organizzazione aziendale, sono attività
fondamentali per garantire un vantaggio competitivo sostenibile nel tempo. Se
l’organizzazione non riesce ad individuare ed attrarre le persone eccellenti, le relative
prestazioni tendono ad essere negative e la funzione manageriale mostra limiti di
sostenibilità funzionale e finanziaria.
Il processo di recruitment e selezione di talenti, in questo contesto mostra un notevole
livello di complessità e criticità. Non si tratta solo di individuare una persona per una
posizione, come spesso si è portati a credere. Bisogna valutare con attenzione ed analiticità
l’impatto del talento all’interno dell’impresa e dei processi organizzativi e valutare con
attenzione non solo le dimensioni tecniche dei candidati, ma soprattutto le loro dimensioni
“emotive” e il loro impatto in un’ottica di sviluppo potenziale della posizione da ricoprire e
delle performance da generare. La selezione non deve essere necessariamente orientata a
ricercare i migliori in assoluto ma ad individuare coloro che mostrano un elevato livello di
congruenza con i valori e le norme dell’organizzazione e la posizione da ricoprire.
Nell’ottica anche di una maggiore adesione a modelli organizzativi piatti che privilegiano
l’efficienza e il taglio di costi, le aziende non necessitano unicamente di competenze
tecnico-specialistiche, ma contemplano nei candidati capacità di problem solving
strategico ed operativo, insieme a capacità gestionali, relazionali e di flessibilità. Per questo
motivo, oggi il recruitment e la selezione non possono più solamente concentrarsi sulla
“ricerca” ma devono sviluppare “politiche attrattive” che incoraggino, in una strategia di
selezione continua, l’autoselezione anche attraverso strategie proattive di attrazione di
candidati talentuosi. Non più selezione per coprire posizioni quindi, ma “selezione
strategica continua”.
A questo scopo, diventa fondamentale che l’impresa sviluppi il concetto di “Employer
Branding” ovvero “una strategia di marketing finalizzata a creare un’immagine aziendale
coerente con l’identità dell’impresa come employer (luogo di lavoro), in sintonia con il
target di riferimento e ben distinta da quella dei competitors, attraverso la quale attrarre e
fidelizzare le persone di talento. La grande sfida per il futuro sarà la capacità dell’azienda
di gestire ed integrare al meglio i suoi diversi ruoli: come realizzatore di profitto mediante
la produzione di beni e servizi, come realtà socialmente responsabile grazie ad un
comportamento sempre più etico e come “luogo di lavoro” dove i dipendenti attuali e
potenziali possano trovare il piacere di lavorare” (Amendola).
Il fine ultimo della strategia di employer branding, come sostiene il prof. Padula, “è quello
di allineare i comportamenti e gli stili cognitivi delle persone con la vision e i valori propri
dell’organizzazione e, quindi, indurre i collaboratori ad essere i portatori stessi dei valori
aziendali e a sostenerli. L’idea di fondo è che quando i dipendenti/collaboratori
comprendono a pieno e apprezzano i loro brand, non solo riescono meglio a fornire
l’auspicata brand experience ai consumatori e agli altri stakeholder, ma offrono all’azienda
un livello di impegno e motivazione senz’altro superiori. In questo contesto, riveste un
ruolo fondamentale la comunicazione interna, che dovrebbe puntare alla creazione di una
loyalty testimoniale, quindi far divenire il personale il vero testimonial dell’azienda.
Dobbiamo rilevare, comunque, che le strategie di employer branding hanno una duplice
valenza: attrarre persone interessate e interessanti ma anche stimolare un comportamento
di autoselezione ex ante, da parte dei potenziali candidati, in modo da rendere più
efficiente il vero e proprio processo di selezione. Le aziende che comprendono le
potenzialità dell’employer branding attraggono i candidati ideali e fanno dei loro
collaboratori i fautori più potenti del “successo” presente e futuro. L’employer image
rappresenta, infatti, una risorsa intangibile non facilmente imitabile dai concorrenti,
poiché integra fra loro il messaggio relativo alle caratteristiche proprie della posizione
lavorativa con le componenti, più emotive e profonde, tipiche di ogni cultura aziendale”.
In conclusione, il valore aggiunto delle attività di recruitment e selezione in un’ottica che
sposa le strategie di sviluppo dell’azienda, diventano fondamentali nell’attuale contesto di
crisi. Una funzione HR che non persegua questi obiettivi è fuori dal mercato e bene farebbe
l’azienda ad esternalizzare tali processi tramite operazioni di outsourcing. Allo stesso
modo, l’obiezione che afferma che politiche di questo tipo valgono solo per le grandi
imprese strutturate, risulta infondata. Le piccole e medie imprese, proprio per la loro
elevata flessibilità e per la potenziale adesione a servizi di consulenza HR in outsourcing
bene si adattano a progettare strategie di recruitment e selezione, che rispondano in modo
flessibile alle mutevoli condizioni del mercato e alle diverse strategie di sviluppo
dell’impresa.
Gli errori che possono portare un’impresa al fallimento
di Maurizio Siciliano
Nelle scorse settimane, mentre discutevo con colleghi sulle cause dei possibili fallimenti di
un’impresa, ho cominciato a leggere un libro, che avevo ricevuto tempo fa, di Trias de Bes,
“Il libro nero dell’Imprenditore”, dedicato a coloro che vogliono iniziare un’attività
imprenditoriale ma che, secondo me, è molto utile anche per chi conduce un’azienda.
Nel testo ci sono alcune considerazioni che ci possono far dire che, a volte, i motivi di un
fallimento sono piuttosto semplici.
L’autore fa alcune considerazioni già piuttosto note agli addetti ai lavori ma che sono
importantissime:
· il 90% dei nuovi progetti imprenditoriale fallisce entro i primi 4 anni di attività;
· gli errori più gravi di chi gestisce un’impresa non sono solo errori di gestione, ma
ERRORI STRATEGICI DI BASE;
· gli errori insegnano più dei successi, come la maggior parte delle cose;
· mentre ogni successo ha una sua storia peculiare, tutti i fallimenti sono da
ricondurre ad una serie di motivazioni che hanno tutti un comune denominatore.
Pare che, in quest’ultimo motivo, de Bes identifichi i Fattori Critici di Fallimento, FCF, in
antitesi anche ai più noti Fattori Critici di Successo di scuola McKinsey, ovvero, gli errori
che ogni imprenditore deve evitare di commettere.
Si inizia con l’analizzare i motivi che sono alla base di un progetto di “start-up” ma che non
sono sufficienti per avere successo. Per de Bes, in genere, chi si butta in una nuova
impresa:
· è senza lavoro;
· odia o disprezza il capo o l’azienda nella quale lavora;
· vuole gestire meglio vita privata e professionale ed aspira ad una maggiore libertà;
· desidera guadagnare molto di più;
· vuole sfidare se stesso e il mondo che lo circonda;
· vuole fare qualcosa che gli piace.
De bes, a questo punto, afferma un principio che sostengo da tempo e cioè, che il motivo
della spinta a intraprendere una nuova attività è poco rilevante per il conseguimento del
successo: ci vogliono, motivazione, volontà ed illusione – sogno.
Il primo FCF è quindi chiarissimo: “…iniziare una nuova attività imprenditoriale con un
motivo ma senza motivazione”.
Il secondo FCF è: “ …non avere un carattere da imprenditore”. Solo chi ama il rischio e sa
gestire l’imponderabile, può fare questo tipo di percorso personale e di vita.
Il terzo FCF è: “…non essere lottatore, non avere spirito combattivo”. I risultati non
coincidono quasi mai con le aspettative ed è necessario avere persistenza ed una notevole
capacità di ridefinire progetti ed attività.
Il quarto FCF è: “…fare affidamento sui soci quando se ne potrebbe fare a meno… meglio
soli che male accompagnati… ”. Un socio che non apporti effettivo “valore” all’impresa non
serve. Il valore sono risorse, lavoro e produttività… Il resto è noia.
Il quinto, il sesto e il settimo FCF, fanno sempre riferimento all’incauta decisione di
imbarcare dei soci nell’impresa: l’autore, infatti, elenca tra gli errori, “non decidere in
anticipo cosa fare quando ci si divide”, “…fare parti uguali quando non tutti contribuiscono
in uguale misura…” e “…mancanza di fiducia e comunicazione con i soci…”.
Quando ci sono dei soci, bisogna mettere nel conto che in futuro le cose potrebbero
cambiare, come in tutte le relazioni. L’entusiasmo può lasciare il posto alla demotivazione
ed è giusto predisporre prima le basi di un’eventuale separazione indolore per l’impresa.
L’ottavo FCF è: “…pensare che il successo dipenda dall’idea…”. Questa è un’illusione tipica,
tanto che molti innalzano improbabili recinti di sicurezza per difendere la loro idea, il
“know-how”, per evitare che qualcuno la copi. Invece, le idee devono essere condivise,
confrontate e cambiate se necessario. I punti deboli e critici di un progetto è meglio che
vengano fuori prima, in modo che siano rapidamente risolti. Conta come si realizza l’idea e
quanto si è flessibili nel modificarla.
Il nono FCF, sembra quasi banale: “…introdursi in settori che non piacciono e che non si
conoscono…”.
Seguono altri FCF molto importanti che hanno a che fare con i bisogni personali e le
ambizioni materiali. Fare l’imprenditore significa anche sapere rinunciare e non
considerare l’azienda come un “bancomat”. Non bisogna mai togliere ossigeno all’attività a
favore di se stessi o di futilità.
Di conseguenza, il successivo FCF afferma: “…mettersi in proprio senza tenere conto
dell’impatto che questo avrà sull’equilibrio della vita…”. Fare l’imprenditore può essere il
migliore mestiere del mondo ma comporta anche molte privazioni e bisogna essere
preparati.
Un altro FCF che propongo anche io da anni è: “…creare modelli di attività che non creino
utili in tempi brevi ed in modo sostenibile”. Sia in passato che oggi, mi presentano progetti
ed idee molto carenti su questo punto e per questo scarto l’idea e sconsiglio di
intraprendere la strada. Questo è un punto molto difficile e delicato da spiegare,
soprattutto a chi vive il momento dell’entusiasmo dell’idea. Molti che hanno intrapreso
l’attività, nonostante questo evidente fattore critico presente, oggi potrebbero testimoniare
che non ne è valsa la pena o, peggio, che la loro vita è cambiata e non in meglio.
L’ultimo FCF è ”…avere temperamento da imprenditore e non da capo impresa e non
capire in tempo quando è il caso di ritirarsi”. Ogni azienda ha un suo ciclo di vita: nascita,
sviluppo, consolidamento. Consolidare significa, però, continuare a crescere. Tutte queste
fasi, difficilmente stanno sempre in capo alla stessa persona, che deve avere la creatività
dell’imprenditore e la capacità gestionale del manager. Chi non ha queste doti deve
abilmente passare la mano per la sopravvivenza dell’impresa e del suo reddito, cosa
difficile a farsi… L’azienda che ha la fortuna di avere questo imprenditore-manager è
certamente ancora lì a scrivere la storia del suo futuro.
Come si misura la performance dei manager?
di Paola Danese
Mi è capitato tra le mani il testo che raccoglie le lezioni inedite di Drucker ed è stato uno
spunto di riflessioni che voglio condividere:
Già alla fine degli anni 60 Drucker mette in evidenza quanto la responsabilità delle azioni
di una qualsiasi grande organizzazione che operi nel contesto economico o sociale, nel
perseguimento degli obiettivi che si è assegnata, non sia un concetto astratto e indefinito,
ma sia in capo ad un dirigente che è puntualmente identificabile; ne deriva che le
performance di quei grandi gruppi industriali o delle grandi organizzazioni, che negli Stati
Uniti prima che in Italia hanno iniziato a far sentire la loro presenza, erano una
conseguenza delle decisioni e della gestione di singoli dirigenti.
Affascinato da queste realtà che caratterizzavano i nuovi tempi (stiamo parlando degli anni
Sessanta) Drucker ha iniziato ad occuparsi del problema della performance dei gruppi
manageriali e non l’ha più abbandonato.
Abbiamo già parlato in questa sede anni fa dei knowledge workers come Drucker li
definisce: i “lavoratori della conoscenza” –quelli che fanno lavorare il cervello- per
distinguerli dai “lavoratori delle braccia” –quelli che fanno lavorare i muscoli. Ecco la
grande novità che irrompe sullo scenario aziendale e sociale con gli anni 60: fino a qualche
anno prima la grande industria produttiva era riuscita a rendere misurabile qualsiasi
performance al proprio interno e quindi ad ottimizzare processi, rendimenti e costi: tutto
stava dentro ad una griglia definita, quantificabile, “contabile”.
Con gli anni 60 ci siamo trovati per la prima volta faccia a faccia con problematiche
complesse che richiedevano, per essere risolte e superate, competenze nuove: non solo
competenze tecniche ma qualcosa che ancora rimaneva fumoso, indefinito; erano evidenti
le differenze tra un’organizzazione funzionante e una che barcollava, ma non si riusciva
ancora ad identificare il comune denominatore del successo che rimaneva, quindi, non
replicabile.
Sembra incredibile quanto un elemento tanto importante per la produttività rimanga a
tutt’oggi ancora in buona parte oscuro: anche Drucker, consulente e ispiratore di milioni di
manager e leader nel mondo (è considerato a livello mondiale il più grande pensatore di
management di tutti i tempi), termina la lunga parabola della sua esistenza con questo
quesito ancora totalmente aperto: come si misura la performance manageriale?
Come consulente incontro aziende e titolari di azienda quotidianamente e non c’è giorno in
cui non mi vengano sottoposti quesiti riguardanti le performance dell’azienda o dei singoli
collaboratori. Il quesito però è solo parziale: gli strumenti infatti per la quantificazione del
profitto o del guadagno che questo o quel collaboratore sono in grado di generare per
l’azienda, la misurazione dello scostamento dei loro risultati da quelli attesi sono ormai
facilmente monitorabili e quindi correggibili e questo spesso da un nuovo senso di
sicurezza al management che torna a vacillare nel momento in cui però, e quel momento
prima o poi arriva per tutti, questo viene messo di fronte alle sue responsabilità di
manager: rendere produttivo il collaboratore.
Come si può allora valutare performante la prestazione di un manager? Ad una prima
analisi le caratteristiche che deve aver maturato sembrano essere, tanto più nella realtà
italiana costituita prevalentemente da un tessuto produttivo di piccole e medie aziende a
gestione praticamente familiare, quelle dell’imprenditore: rapidità nella decisione e
nell’esecuzione, capacità di vision, intuito, senso strategico, forte determinazione.
Eppure ogni giorno incontro imprenditori capaci e lungimiranti, che hanno un fiuto per il
business innato, che nella gestione dei collaboratori sembrano uno splendente
transatlantico che si arena nelle acque basse.
Negli anni Settanta Drucker diceva che il manager “dovrà imparare tutto da sé, perché gli
accademici non gli daranno aiuto”. Nella quotidianità ci si accorge quanto in effetti
l’università non riesca a dare contributi sostanziali alla creazione di cultura manageriale:
dal colloquio con il neo laureato e pluri-masterizzato che sente come un diritto
l’inquadramento da dirigente e lo stipendio di giada, al corso del solito formatore d’aula
che ha messo insieme qualche elemento di PNL e pensa di poter risolvere i problemi di
gestione del personale con una bella giornata di formazione a pioggia.
La realtà è che le competenze necessarie per far sì che un gran numero di persone,
ciascuna delle quali svolge una mansione differente, lavori in maniera coordinata, sono
numerose, specifiche e complesse e riguardano solo in parte ed in maniera minoritaria le
abilità che esercita tutti i giorni l’imprenditore quando si confronta con il mercato o con i
suoi stakeholder.
Oggi lavoriamo e ci confrontiamo con una forza lavoro che non solo ha una composizione
diversa da quella del passato: ha un titolo di studio di scuola superiore e spesso anche di
più. Questi giovani che si buttano nell’agone hanno imparato moltissimo ma, e questo
conta più di tutto, hanno mutato le loro aspettative.
Cito testualmente Drucker perché è illuminante:
“in primo luogo, si aspettano che il management sia razionale. Si aspettano che i
comportamenti del management siano quelli che hanno appreso a scuola. Ora, sia io che
voi sappiamo che questa è una pura e semplice illusione. Tuttavia, essi si aspettano che ci
sia un metodo per prendere le decisioni -che non ci si limiti a dire loro “fate così perché ve
lo dico io”. Si aspettano che ci sia un ragionamento, che ci sia qualche motivazione in ciò
che fa il management. Si aspettano tutto ciò e, perbacco, lo otterranno. Perché vi prego di
non scordarvi che vivranno ancora quando noi non ci saremo più. Si aspettano che ciò che
hanno imparato venga messo i pratica. Si aspettano di dare il loro contributo e di
guadagnarsi da vivere. Hanno creduto sinceramente a tutto ciò che abbiamo predicato; può
anche essere sciocco da parte loro, ma i giovani credono fermamente a ciò che i genitori e
gli insegnanti dicono. E noi abbiamo detto loro di aspettarsi razionalità dal management.
Abbiamo detto di prepararsi a sfide impegnative. Abbiamo detto di aspettarsi
comportamenti responsabili. E loro si aspettano tutto ciò. Soprattutto, dovremo imparare
a mettere all’opera queste energie straordinarie. Francamente non riesco ancora a vedere
un posto dove tutto ciò possa essere messo in pratica. Però credo che abbiamo il dovere,
innanzitutto verso noi stessi, di impegnarci in tale direzione.”
Forse non esiste ancora la griglia perfetta dove inserire i dati di rendimento del manager
per valutarne le prestazioni, ma certamente partendo da ciò che i nostri collaboratori si
aspettano da noi, dal contributo che vogliono e sono disposti a dare per riuscire, possiamo
disegnare un percorso da seguire, uno scenario auspicabile che dobbiamo dipingere giorno
dopo giorno, con la consapevolezza che la responsabilità della risposta sta sempre in chi
pone la domanda.
I Vincitori: una miscela di talento e determinazione? Si, ma non solo!
di Elena Pierini
Come si fa ad arrivare al successo? È solo questione di talento e determinazione?
Malcolm Gladwell riesce a dare una risposta osservando le persone giunte all’apice del
successo come: campioni dello sport, geni della scienza, virtuosi della musica, uomini
d’affari multimilionari.
Gladwell analizza le loro doti individuali ma anche e soprattutto i dettagli delle loro
biografie.
Vediamo come, riporto alcuni esempi.
L’hockey canadese è una meritocrazia. Se hai la stoffa e sei disposto a darti da fare per
sviluppare il tuo talento il sistema ti premierà, nell’hockey il successo si basa sui meriti
individuali.
A metà degli anni Ottanta uno psicologo canadese, Roger Barnsley, attirò per primo
l’attenzione sul fenomeno dell’età relativa.
Osservando l’organico dei Medicine Hat Tigers nel 2007, spicca ai nostri occhi che il 40%
degli atleti era nato tra gennaio e marzo, il 30% tra aprile e giugno, il 20% tra luglio e
settembre e il 10% tra ottobre e dicembre.
Non c’è bisogno di un’analisi statistica, basta semplicemente guardare l’organico della
squadra.
Quindi? I segni del Capricorno, dell’Acquario e dei Pesci sono i migliori? No, non è una
questione di zodiaco.
Per vincere talento, passione, lavoro duro e determinazione sono basilari, tuttavia anche
un bel vantaggio di diversi mesi di allenamento e maturità in più certamente aiutano.
Ma esiste il talento innato? Certo!
Non tutti i giocatori di hockey nati in gennaio finiscono per fare i professionisti. Solo
alcuni: quelli che hanno talento e preparazione.
Sarai tu il prossimo Michael Jordan? Quando sei nato?
Anche un ricercatore australiano afferma che potrebbe dipendere da quando sei nato.
Secondo Adrian Barnett, il mese di nascita di una persona può infatti avere impatto su
salute e forma fisica.
I risultati del suo studio sono stati pubblicati in un libro, “Analysing Seasonal Health
Data”, analizzando i compleanni dei giocatori professionisti della Australian Football
League (Afl), Barnett ha riscontrato che un numero sproporzionato è nato nei primi mesi
dell’anno, mentre quelli nati negli ultimi mesi, specialmente a dicembre, sono pochi.
In Australia l’anno scolastico comincia a gennaio.
“I bambini più alti hanno un ovvio vantaggio quando giocano”, spiega Barnett: “Se sei nato
a gennaio, hai 12 mesi di crescita di vantaggio rispetto ai tuoi compagni nati nei mesi
successivi, quindi nascere il 31 dicembre o il 1 gennaio potrebbe fare una grande differenza
nella tua vita”.
I risultati, ha spiegato, rispecchiano quelli di altri studi internazionali che hanno
riscontrato un legame tra data di nascita vicina all’inizio dell’anno scolastico e chance di
diventare un giocatore professionista in sport come hockey, football, pallavolo e basket.
Un altro studio importante riguardante l’argomento del talento è portato nei primi anni
’90 dallo psicologo K. Anders Ericsson e due colleghi all’accademia d’élite della musica di
Berlino. Con l’aiuto dei professori dell’accademia, hanno diviso i violinisti della scuola in
tre gruppi.
Nel primo gruppo c’erano le stelle, quelli con potenziale per diventare i migliori al mondo.
Nel secondo c’erano quelli semplicemente “bravi”. Nel terzo, infine, quelli che difficilmente
sarebbero diventati musicisti professionisti, e che avevano intenzione di diventare
insegnanti di musica. A tutti è stata posta la stessa domanda: nel corso della tua carriera,
da quando hai preso per la prima volta in mano un violino, quante ore di esercizio hai
fatto?
Tutti, in tutti e tre i gruppi, avevano cominciato a suonare più o meno alla stessa età,
intorno ai cinque anni. Nei primi anni tutti si esercitavano sulle due o tre ore a settimana.
Ma intorno agli otto anni cominciavano ad emergere le vere differenze. Quelli che poi
sarebbero diventati i migliori della classe hanno cominciato ad esercitarsi più di tutti gli
altri. In effetti, all’età di vent’anni i violinisti “d’élite” avevano totalizzato più di diecimila
ore di esercizio. Il secondo gruppo era sulle ottomila, ed il terzo poco più di quattromila.
Quello che colpisce nello studio di Ericsson è che non si è trovato nessun musicista
“naturale” che galleggiasse senza sforzo tra i migliori esercitandosi molto meno di loro, né,
specularmente, alcuno sfortunato che, pur sforzandosi più di tutti gli altri, non avesse
quello che serviva per arrivare al massimo.
La ricerca suggerisce che una volta che un musicista è abbastanza capace da entrare in una
scuola di musica, quello che fa la differenza è quanto si esercita.
Inoltre, i migliori dei migliori non si limitano a lavorare più, né molto di più. Lavorano
molto, molto di più.
L’idea che l’eccellenza in un compito complesso richieda un minimo di esercizio è emersa
molte altre volte negli studi al riguardo. I ricercatori, in effetti, si sono accordati su quello
che credano sia il numero magico per essere davvero capaci: diecimila ore.
Anche i Beatles, uno dei più famosi gruppi rock della storia, prima della loro esperienza ad
Amburgo non avevano nessuna regola quand’erano in scena.
Quando si conclusero i vari viaggi ad Amburgo, avevano suonato dal vivo circa 1200 volte
ed erano diventati ciò che sono diventati.
Come mai?
L’importanza di Amburgo risiede nella semplice quantità di tempo che il gruppo fu
costretto a suonare.
John Lennon in un’intervista disse: “A Liverpool non avevamo mai suonato più di un’ora,
invece ad Amburgo ci è toccato suonare per otto ore e più di una volta, così abbiamo
dovuto per forza imparare a suonare in una maniera nuova”.
Un’occasione straordinaria simile a quella dei giocatori nati a gennaio, febbraio e marzo.
Lewis Terman, psicologo statunitense, nel 1921 decise di fare dell’analisi dei ragazzi dotati
la missione della sua vita. Quei genietti furono ribattezzati “Termites” ed erano in possesso
di un QI (Quoziente Intellettivo) superiore a 140, che per una persona normale è tra gli 80
ed i 100.
Purtroppo dopo alcuni anni, nonostante le aspettative molto elevate, ben pochi “Termites”
erano diventati personaggi famosi a livello nazionale, mentre alcuni di loro avevano lavori
ordinari con redditi non eccezionali e sorprendentemente parecchi erano dei falliti.
Per avere successo nel lavoro, il QI non è tutto.
Chi a scuola è sempre stato bravo non necessariamente sarà più adatto ad un certo tipo di
lavoro rispetto a chi era uno studente scarso. Infatti, i classici test di intelligenza effettuano
la misura del QI in base alle tradizionali capacità logico-matematiche, verbali e spaziali,
evidenziandone però i limiti quando il QI è considerato un indicatore per prevedere il
successo che una persona otterrà nella vita professionale e sociale. Frequentemente si
verificano casi in cui persone con un QI alto ottengono scarsi risultati nel campo del lavoro
e nell’ambito delle relazioni sociali. Ciò ha dimostrato che l’intelligenza intesa come puro
raziocinio rispecchia solo una porzione delle più generali capacità che permettono ad un
individuo di affrontare e risolvere i problemi di tutti i giorni. La conseguenza è che il
giudizio ottenuto a scuola tende a mettere in luce solo un tipo di intelligenza più generale,
a discapito di eventuali inclinazioni più spiccate del singolo.
Si pensi ad una persona particolarmente intelligente, professionalmente preparata, ma
intrattabile ed asociale. Le mancanze a livello relazionale potrebbero notevolmente
compromettere un futuro professionale probabilmente brillante e promettente.
Tornando allo psicologo statunitense, i “Termites” divenuti famosi erano coloro che
avevano conquistato il successo e provenivano in maniera preponderante dalla classe
media o alta, mentre i falliti viceversa venivano dai quartieri poveri.
Terman dà ragione all’argomentazione di Annette Lareau, secondo cui conta veramente il
modo in cui i vostri genitori si guadagnano da vivere e quali sono i presupposti della loro
classe di appartenenza.
La sociologa Annette Lareau, qualche anno fa, ha condotto una ricerca su un gruppo di
alunni di terza elementare. Scelse scolari bianchi e neri provenienti da famiglie povere e
facoltose.
I genitori della classe media tentano di valutare e promuovere i talenti, le opinioni, le
capacità del bambino in modo attivo. I genitori poveri ritengono, al contrario, che sia loro
responsabilità dei figli ma lasciano che crescano e si valorizzino per conto proprio.
La conseguenza dei due diversi modi di educare fa si che i bambini poveri siano spesso più
educati, meno piagnucolosi, più creativi nell’uso del proprio tempo ed hanno un senso di
indipendenza ben sviluppato.
Il bambino della classe media, pieno di impegni, è esposto ad una serie di esperienze che
mutano costantemente. Impara a lavorare in gruppo e ad affrontare ambienti molto
strutturati, gli insegnano ad interagire senza difficoltà con gli adulti e ad esprimere la
propria opinione se necessario. Si comportano come se avessero diritto di dar corso alle
priorità individuali, di interagire attivamente in un contesto istituzionale e di agire nel
proprio interesse per ottenere vantaggi.
Allora, come si fa ad arrivare al successo?
Il talento e la determinazione non assicurano il successo, ma devono essere accompagnati
da altri elementi e circostanze, spesso bizzarri e quasi sempre sottovalutati, ma che fanno
parte di noi, di tutte le nostre esperienze e di tutto ciò che ci circonda sin dall’infanzia. Si
tratta del mese di nascita, delle ore di allenamento e preparazione, della classe di
appartenenza, della cultura, del momento storico, del tessuto economico e sociale: tutte
quelle circostanze e scelte, anche banali, che abbiamo davanti ogni giorno, ma che
delineano il nostro profilo di vincitore o di perdente.
La Vendita non più arte, ma scienza: la disciplina diventa il rituale del successo
di Michele Natali
Nel mondo degli affari non succede niente fino a che non si vende qualcosa, si vende
affinché la fabbrica possa produrre ciò che è stato ordinato, il prodotto o servizio sia stato
consegnato, gli stipendi possano essere pagati e quel nuovo sistema informatico di cui c’era
bisogno possa essere finalmente acquistato. C’è vendita anche quando ci si reca in banca a
chiedere un prestito o un estensione del fido; bisogna riuscire a “vendere” alla banca la
capacità di ripagare un debito: una vendita c’è sempre e comunque sia che si
venda al cliente un si o che sia lui a vendere un no!
Il venditore vecchio stampo è passato di moda, non si vende più alla vecchia maniera, i
tempi sono cambiati. In questi ultimi anni dobbiamo cambiare il modo in cui vendiamo o
non venderemo abbastanza per realizzare i nostri obiettivi.
La crisi internazionale e precedenti recessioni hanno imposto un cambiamento nel
processo di vendita di cui tutto il mondo degli affari se ne avvantaggerà per lungo tempo.
Per ottenere risultati ora è necessario vendere qualcosa a qualcuno per 2 volte oppure
riuscire a vendere qualcosa a qualcuno che ci porterà qualcun altro.
Il nuovo modo di vendere, in ogni caso, passa attraverso l’applicazione di metodi vecchi:
occorre sempre conoscere tutte le tecniche e le strategie di vendita, ma sarà necessario
utilizzarle in un modo diverso, in modo amichevole, sincero; in un modo che evidenzi
quanto la cosa più importante sia rendersi utili e non vendere.
La vendita di per sé non è un arte! Vendere è scienza: diventa una risposta pronta, una
composizione di parole, di frasi di tecniche per convincere un contatto ad acquistare e
come per la scienza c’è bisogno di fare esperimenti prove per stabilire che cosa funzioni
meglio e quali teorie abbiano la resa pratica migliore.
Le nuove regole sono semplici e si possono mettere in pratica subito; utilizzarle è il primo
passo ma la sfida sarà quella di diventare bravi nel loro utilizzo.
In un economia che si può definire del 12 settembre, post new economy, in cui si sono
perse molte certezze, l’ansia ci accompagna: per alcuni sarà il panico, ma è proprio in
questi momenti che ci si costruisce il successo Come? Vendendo e lavorando mentre tutto
il mondo attorno si lamenta.
In che modo? Alla base di tutto ci sta la preparazione e lo studio e poi di seguito
elenchiamo una serie di suggerimenti che non devono costituire belle parole da mettere nel
cassetto, ma azioni da compiere con metodo e dedizione se si vuole vendere con successo
in questi “tempi duri e nuovi”.
1) Difendere i clienti a costo della vita. Gli altri venditori stanno puntando sui
nostri clienti come tigri affamate. E’ giunto il momento di investire tempo e denaro
per sviluppare le relazioni e non dimenticarsi di loro. Che cosa succederebbe se la
concorrenza ci togliesse 2 dei nostri migliori clienti? Abbiamo una strategia per
essere certi che ciò non accada?
2) E’ la relazione che conta non i soldi. Quando gli affari non si sviluppano tutti
provano ad accaparrarsi nuovi clienti offrendo prezzi più vantaggiosi. Abbiamo la
grande opportunità di instaurare delle relazioni che valgono; aiutiamo quindi i
clienti a sviluppare la propria attività dando loro idee vantaggiose ed interessanti.
La ricerca esclusiva di nuovi clienti ci rende più vulnerabili tralasciando quelli già
acquisiti: quali nuovi sistemi abbiamo creato per costruire una relazione?
3) Partecipare ad eventi sociali più di quanto abbiamo fatto fino ad ora.
Questa è la maniera migliore per consolidare relazioni già esistenti e costruirne di
nuove. Bisogna sviluppare una buona rete: se non ci dedichiamo almeno quattro
ore a settimana a questa attività perderemo il vantaggio rispetto a chi lo farà.
Abbiamo elaborato un piano d’azione della durata di un anno per stabilire e
mantenere relazioni con clienti e contatti?
4) Costruire una buona reputazione, sarà grazie a quella che ci
riconosceranno. Ciò che abbiamo fatto negli anni passati ha costruito la
reputazione che abbiamo oggi. La sfida più grande nei periodi duri è fare il
possibile per crearsi una reputazione impeccabile. Non piaceremo a tutti ma i
nostri successi futuri dipendono dal fatto di avere clienti che ci ADORANO. Che
cosa si dice di noi quando non ci siamo?
5) Prendere decisioni in previsione di chi si vuole diventare e non in base
ai soli guadagni immediati. E’ meglio prendere decisioni pensando alla
persona che vorremo diventare, piuttosto che alla nostra situazione attuale, in
questo modo le azioni saranno dirette verso relazioni a lungo termine e non al
risultato immediato. Quando realizziamo una vendita stiamo facendo un
compromesso a breve termine o prendendo un impegno a lungo termine?
6) Impiegare più tempo a progettare soluzioni è meglio che lamentare
problemi. Questo è il momento di prepararsi ed essere al meglio e non si può
farlo se continuiamo a lamentarci. La buona notizia è che la stragrande
maggioranza di persone continuano a lamentarsi, quindi resta un abbondante
spazio di manovra per avere successo: le persone continuano a comprare anche se
c’è la crisi, comprano meno ma comprano. Le vendite verranno concluse dai più
PREPARATI e MOTIVATI.
7) Non spendere ma investire (nel tempo, nei soldi, negli affari ed in ogni
cosa che si fa). Sarebbe facile mettere la testa sotto la sabbia e sperare che tutto
torni come prima. Ma la realtà non cambia quindi ci conviene utilizzare ciò che
abbiamo a disposizione per costruire pensieri positivi, nuove informazioni e nuove
strategie per realizzare un ottima rete di contatti in modo da garantirci i risultati
negli affari. Quanto tempo investiamo ogni giorno in noi stessi?
8) Creare una differenza tangibile tra noi e gli altri. Occorre lavorare sotto
questo aspetto ogni giorno. Occorre cambiare tutto, ogni cosa da ordinaria deve
diventare straordinaria : Che cosa c’è di memorabile in noi? In che cosa siamo
diversi dagli altri? Bisogna aggiornare tutto quello che si dice tutto quello che si fa.
Ogni comunicazione diretta ai clienti deve essere incredibile.
9) Bisogna imparare la gioia del rifiuto. Ci si esercita facendo tante telefonate:
molta gente risponderà NO. Che cosa facciamo quando ci sentiamo rispondere
NO? Come potremmo o dovremmo rispondere?
10) Occorre lavorare mentre gli altri dormono. Prima ci si sveglia, più
possibilità si avrà di migliorare e di battere la concorrenza. Meglio essere
mattinieri che nottambuli. Forse non tutti, ma solitamente al mattino si pensa con
più chiarezza. Come impieghiamo le nostre ore mattutine? Cosa potremmo fare di
diverso?
11) Mettere gli obiettivi davanti agli occhi e ripeterli almeno 2 volte al
giorno. La formula per ottenere gli obiettivi può essere diversa per ognuno, ma la
verità del detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” risulta sempre valida.
Diventa utile scrivere i nostri obiettivi e leggerli almeno 2 volte al giorno fino a
quando non vengono raggiunti. Può diventare funzionale ed importante la
suddivisione degli obiettivi in piccole azioni quotidiane; ad esempio mettere da
parte 1000€ risparmiandone 3 al giorno, chiudere 30 vendite facendo 5
appuntamenti quotidiani. Se ci proponiamo piccoli goal giornalieri e li
raggiungiamo va da sé che il grande goal è alla nostra portata. Quali piccoli-grandi
passi possiamo muovere ogni giorno per raggiungere il nostro GRANDE obiettivo?
12) Scommettere su se stessi sapendo che non spetta alla società, spetta a
noi. Assumersi la piena responsabilità e la proprietà assoluta del nostro lavoro
delle nostre abitudini dei nostri clienti e di noi stessi. Chi stiamo incolpando per
cose che invece dovrebbero essere sotto la nostra responsabilità?
13) E’ importante ritrovare la tenacia che avevamo a 4 anni, quando
chiedevamo ai nostri genitori di comperarci un giocattolo e non
volevamo sentirci dire di No. Quante volte abbiamo ottenuto quel giocattolo?
Stiamo realizzando altrettante vendita? Eravamo tenaci allora ed ora? Stiamo
rinunciando troppo facilmente? Per cosa varrebbe la pena combattere di più?
14) La presenza sul web deve essere dominante. Il web è uno strumento per
velocizzare gli affari: si ha la possibilità di apparire 24 ore su 24, 7 giorni alla
settimana e 365 giorni all’anno; per la facilità di comunicare, pianificare,
preparare resoconti, avere un database sempre disponibile e soprattutto
condividere informazioni che aiutino gli altri a costruire la Loro attività. Che cosa
c’è di incredibile nel nostro sito Web?
Ora tutto ciò che occorre fare è diventare esperti in ognuna di queste strategie e la nostra
quota di mercato non la perderemo.
Ricordiamoci quindi di non tralasciare i nostri clienti e fornitori attuali; facciamo tutto ciò
che è possibile per conquistare la lealtà dei nostri clienti, perché la concorrenza è affamata
e si aggira come una volpe in cerca delle nostre galline! Prendiamo provvedimenti nuovi
per far si che i nostri clienti rimangano fedeli.
Ricordiamoci quindi Vendere è una disciplina. Non nel senso militare del termine, ma
in quello di devozione: una dedizione personale verso la realizzazione, che può esistere
solamente in presenza di una buona disciplina. Si intende il controllo che nasce da dentro,
non delle regole imposte dall’esterno; anche qui non parliamo della fatica della disciplina
ma della gioia della stessa.
La disciplina non è altro che il processo quotidiano di focalizzazione sui
propri obiettivi. E’ combattere fino a farcela.
Quindi due cose semplici ma essenziali: Risposte facili e lavoro duro
ricordando che:
La disciplina è il rituale del successo.
La selezione del personale: fattore strategico per superare la crisi?
di Michele Natali
Perché scegliere le persone giuste è così importante, anche in un periodo così difficile?
Puntare su persone straordinarie diventa di vitale importanza per il successo di un’azienda,
perché ogni nostro scopo dipende dalle persone che abbiamo scelto, i nostri risultati, le
nostre performance, i nostri rischi e le nostre possibilità di crescita.
Quando iniziamo un nuovo lavoro, intraprendiamo una nuova esperienza le questioni
cruciali sono di diversi tipi, hanno a che fare con il “Come” fare il nostro lavoro, poi mano a
mano che avanziamo, dobbiamo preoccuparci del “Cosa” e, una volta che la nostra vita
professionale è ben avviata, se vogliamo fare la svolta importante, l’attenzione passa sul
“Chi”: chi saranno le persone che mi aiuteranno e come dovrò gestirle per ottenere dei
risultati?
Puntare sulle persone è condizione fondamentale per creare grandezza durevole e
soprattutto è dimostrato che è anche l’elemento più significativo da controllare attraverso
un impatto misurabile sul valore dell’organizzazione: in certi contesti la semplice scelta di
un capo può spiegare fino al 40% delle variazioni nel valore aziendale. Perché questo?
Una spiegazione la troviamo nella complessità degli incarichi ad alto livello e più
complesso sarà il lavoro, maggiore sarà la differenza tra le performance medie e quelle
eccellenti.
Se questo è sempre stato il caso, scegliere le giuste persone sta diventando sempre più
importante, 2 sono le ragioni: la prima è dovuta al fatto che quasi i tre quarti del valore
delle società moderne è costituito da beni intangibili, i quali riguardano le persone; la
seconda è che in un contesto sempre più instabile, le abilità richieste possono cambiare
velocemente e la frequenza delle decisioni critiche aumenta in maniera esponenziale.
Nella difficoltà quindi i contesti economici instabili, rappresentano un’opportunità
importante per investire in talenti giusti.
In situazioni economiche incerte, come quella che stiamo vivendo, alcuni talenti
eccezionali possono diventare disponibili, ma il loro investimento in periodo di crisi
diventa difficile da sostenere per un’azienda.
Allora che fare?
Spesso a causa delle nostre menti inquadrate eccessivamente, procrastiniamo molto
quando si tratta di persone; esageriamo i rischi del cambiamento e sottovalutiamo il costo
delle opportunità presenti, oppure quando agiamo lo facciamo in maniera affrettata.
Spesso diamo troppo valore alla prima impressione che abbiamo di una persona, oppure
diamo importanza ai dettagli tecnici indicati in un curriculum vitae, il quale non è
sottoposto a nessuna reale certificazione (almeno in Europa).
Quindi anche, e soprattutto, in situazioni di crisi come quella attuale, prendere le giuste
decisioni in materia di assunzione del personale, diventa strategicamente decisivo.
Anche se in crisi, l’azienda avrà sempre bisogno di persone per dare valore aggiunto alla
propria attività e superare il momento difficile.
Quindi selezionare risorse umane con attitudini emotive importanti, diventa veramente un
procedimento da attivare con estrema attenzione e disciplina.
Qualsiasi sia il motivo (rafforzare un’area commerciale, ottimizzare un processo
organizzativo interno, avviare una nuova filiale) in fase di selezione cerchiamo di seguire i
seguenti suggerimenti:
1) Nei periodi di incertezza e turbolenza economica, occorre prendere coscienza di
agire;
2) Bisogna superare gli impedimenti emotivi: è vero, assumere mentre si licenzia è
difficile, ma rimanere vivi e superare la crisi diventa imperativo;
3) Occorre essere proattivi (ovvero una volta avere preso coscienza di agire), agiamo.
4) Importante è sviluppare le competenze soft: mentre una rilevante esperienza è
necessaria quando non si ha molto tempo per imparare, contesti vorticosi,
richiedono elevate attitudini basate sull’intelligenza emotiva (capacità di agire in
contesti altamente competitivi, sopportazione allo stress, capacità di
intraprendenza: ad esempio);
5) Nonostante le urgenze è bene assicurarsi un buon numero di candidati, quindi
allarghiamo il bacino di utenza (più canali, avremo più curricula e di conseguenza
più candidati);
6) E’ bene valutare con disciplina facendosi aiutare da esperti selezionatori che
conducano colloqui strutturati: sia il procedimento che i partecipanti diventano
fattori chiave.
7) Bisogna affinare le proprie capacità: nonostante l’importanza decisiva, più volte
evidenziata di scegliere le persone giuste, molti non hanno studiato come farlo: per
fortuna selezionare le persone giuste non è un mistero né un’arte e nemmeno il
frutto di una fortuita coincidenza: è una capacità ma soprattutto una disciplina che,
a prescindere dal periodo economico, dovrebbe essere appresa.
Una volta applicati i punti precedenti bisognerebbe individuare le modalità di esecuzione
del colloquio di selezione: fare un solo colloquio diventa rischioso, anche se si hanno tempi
strettissimi o se un soggetto sembra particolarmente promettente, occorre fare in modo
che tutti i candidati vengano intervistati da più persone. Interessante sarebbe individuare
nella propria organizzazione qualcuno che abbia un talento speciale a riconoscere a prima
vista le figure talentuose o i brocchi: fidatevi di loro e sarebbe buona norma ascoltare il
collega fidato quando afferma che un certo candidato non gli va istintivamente a genio.
Ad un certo punto del processo di selezione esageriamo la complessità della posizione da
ricoprire, descriviamola nella giornata più nera, faticosa, irta di contrasti e piena di
incertezze. In questo momento, teniamo d’occhio il candidato: se continua a manifestare
un incondizionato entusiasmo è probabile che non abbia altre opzioni di impiego.
Valutiamo con favore il candidato se comincia ad incalzare con domande scomode come:
“In quanto tempo dovrei portare i risultati da voi descritti?” e siamo ancora più entusiasti
se il candidato fa domande sui valori dell’azienda.
Le difficoltà indurranno i candidati ad agitarsi in preda alla curiosità intrisa di fiducia nei
propri mezzi, che fa ben sperare.
Infine, finito il colloquio oltre che verificare le referenze del candidato, non limitiamoci ad
una conversazione superficiale: in questi casi obblighiamoci a mettere in discussione tutto
ciò che ci sembra poco chiaro e fidiamoci dei nostri appunti e delle nostre valutazioni e
cerchiamo di farci dare risposte più vicine possibile alla realtà.
Trovare le persone giuste è difficile, trovare persone di grande talento è difficilissimo.
Eppure non c’è nulla che sia più importante per ottenere risultati, che mettere in campo le
persone giuste. Le strategie più brillanti e le tecnologie più sofisticate ed avanzate non
servono a niente se non ci sono persone di valore in grado di applicarle con successo.
Ecco perché il processo di selezione è così importante, anche in un periodo di crisi. Mettere
in campo i giocatori più validi o dei collaboratori di qualità, può aiutarci ad uscire dai
momenti difficili o da situazioni economicamente drammatiche. Tali persone si possono
trovare ovunque, bisogna solo capire come sceglierle.
Voilà, e d’un tratto diventi Leader!
di Elena Pierini
Fino a ieri eravate concentrati sulla vostra crescita professionale e ora vi ritrovate a dover
far crescere professionalmente gli altri.
Eravate un bambino in fasce, siete cresciuti e ora vostro padre vi dice: “Caro figlio, io sono
stanco e adesso tocca a te a prendere in mano l’azienda di famiglia!”
Eravate un impiegato che svolgeva al meglio il suo lavoro e, un bel giorno, il vostro “capo”
vi promuove: “Il lavoro è aumentato e, dato che hai dimostrato di essere molto bravo, ora
occorre che tu gestisca i tuoi colleghi e anche una persona che comincerà tra una
settimana!”.
Facevate colloqui alla ricerca di un ruolo di responsabilità e finalmente vi hanno preso
come Responsabile di un ufficio, composto da più persone all’interno di una SpA!
Eravate un imprenditore che riusciva a far tutto da solo ma ora avete bisogno di personale
che vi dia una mano!
Eravate un manager di successo e vi hanno assunto in un’azienda per sistemare le cose!
Bene! Dopo tanta fatica, oppure a causa del “fato”, quindi o per scelta o per costrizione: ora
siete un Leader!
E ora?
Quanti di voi Leader si ritrovano con tante domande e poche risposte concrete e utili su
come gestire le persone e far le cose giuste?
Le domande più frequenti dei Leader che si sentono girando per aziende sono spesso
queste:
· Come mai non fa quello che gli chiedo di fare?
· Come faccio a fargli capire che quella cosa non va fatta come la fa e la continua a
fare, nonostante gli abbia detto più volte di non farla così?
· Come faccio a non farmi chiamare 10 volte al giorno per poi chiedermi sempre le
solite cose?
· Come faccio a renderlo autonomo?
· Come faccio a fare in modo che mi ascolti quando parlo?
· Come faccio a sapere se ha capito quello che gli ho spiegato?
· Come faccio a fargli ottenere dei risultati?
· Come faccio a non arrabbiarmi se non capisce?
· Come faccio a fidarmi di lui ed affidargli compiti sempre più importanti?
· Come faccio a controllarlo quando non sono presente?
· Come faccio a non perdere il collaboratore migliore?
· Meglio usare il bastone o la carota?
Il ruolo di Leader richiede comportamenti e atteggiamenti particolari che, per la maggior
parte, cominciano ad essere assunti, quando si inizia questo nuovo ruolo.
Prendiamo ad esempio alcune regole in merito alla leadership di Jack Welch, manager del
secolo.
Una sua regola dice che dovete dubitare dei vostri collaboratori e non dare mai nulla per
scontato, mentre un’altra dice che dovete esibire energia positiva e ottimismo,
promuovendo nei collaboratori un atteggiamento fiducioso e possibilista.
Una dice che dovete agire con autorità come i capi tradizionali, mentre un’altra dice che
dovete ammettere i vostri errori e sostenere i collaboratori che si assumono dei rischi,
specie quando falliscono.
La vita sarebbe molto più facile se la leadership fosse solo un elenco di regole da seguire e
imparare a memoria, ma non è così e ogni giorno c’è sempre una nuova sfida!
Sicuramente giorno per giorno avete l’opportunità, e anche il dovere, di migliorare in
questo lavoro, dove non si può essere perfetti, in cui metterci sempre il meglio di voi stessi
e di mettervi un po’ di più in discussione.
Ogni tanto domandatevi: ”Sono sempre i collaboratori che sbagliano o sono io che ho
sbagliato qualcosa con loro?”
I tragici difetti dei Leader secondo Jeffrey Gitomer , uno dei migliori trainer di venditori al
mondo, autore di culto, fondatore e presidente di diverse società di marketing, sono: essere
prepotente; essere inaccessibile; rispondere o decidere con lentezza; rimproverare in
pubblico; non mantenere o infrangere le promesse; non dire la verità; fare favoritismi;
essere scostante; non essere tecnologicamente aggiornato; assegnare il compito sbagliato
alla persona sbagliata.
Secondo questo grande Leader, come si incoraggia un bambino di un anno a camminare,
così si deve fare con i propri collaboratori, affinché questi raggiungano il successo e i
risultati.
Ricordatevi che nessuno vuole essere gestito ma tutti desiderano essere guidati!
Elenco di seguito i Principi della leadership di J. Gitomer che, se applicati con coerenza nel
tempo, portano al risultato desiderato:
· La tua filosofia riguardo alla visione della vita e della leadership determina il tuo
modo di essere una guida;
· Il tuo atteggiamento positivo incide su chi ti sta attorno;
· La tua esperienza e i tuoi successi passati sono d’aiuto e ti rassicurano nel prendere
decisioni per il futuro;
· Quando dirigi dando l’esempio, non vi è nulla che i tuoi collaboratori non farebbero
per te e con te;
· Sii o renditi simpatico;
· Una comunicazione chiara favorisce la comprensione e l’azione;
· La responsabilità non viene data, viene presa;
· La collaborazione porterà rispetto, risultati e reputazione;
· Fai quanto hai detto, mantieni le promesse;
· Dedica più di un minuto a elogiare, istruire, informare e addestrare;
· Riconosci la vittoria e la sconfitta;
· La capacità di recupero è la forza interiore che ti permette di reagire, intervenire e
riprenderti dagli eventi;
· Il coraggio di rischiare, di essere nel giusto e di sbagliare;
· Separa i compiti dalle persone, quindi assegnali e combinali in base alla
preparazione e propensione della persona;
· Ricompensa i risultati individuali e di gruppo;
· Devi guadagnarti, non pretendere, la fiducia e il rispetto;
· Incoraggia il LORO successo per meritare e ottenere il tuo;
· Il tuo ascendente sui collaboratori si tradurrà in risultati di successo;
· La tua reputazione ti precede e ti descrive;
· L’eredità culturale è costituita da singoli successi impilati l’uno sull’altro.
Diciamo che diventare un Leader è un grande cambiamento e come dice J. Gitomer:
“CAMBIAMENTO NON E’ UNA PAROLACCIA… MA SPESSO LA TUA REAZIONE LO E’!”
Dimmi come pianifichi la tua comunicazione e ti dirò chi sei
di Fabiana Gallone
@fabianagallone
È risaputo: la comunicazione è la linfa vitale delle aziende.
Se non si comunica la propria immagine aziendale, nessuno saprà che sul mercato esiste
anche la tua attività: comunicare per dichiarare la propria esistenza. Un gioco da ragazzi!
Scegliere i canali più efficaci ed efficienti per far sì che il proprio messaggio arrivi alle
orecchie dei propri clienti attuali o potenziali, risulta più difficoltoso.
Perché? Non tutte le aziende, indipendentemente dalla propria ragione sociale e
grandezza, hanno compreso la necessità di pianificare la propria comunicazione in modo
ordinato e programmato: vige una certa predisposizione allo “scoordinamento
comunicativo”.
Sicuramente, questo non vale per le grandi imprese, nelle quali gli uffici marketing, avendo
a disposizione uno specifico budget annuale, riescono a programmare tutti gli interventi
necessari per far sì che la comunicazione esterna e interna possa concretizzarsi. Se poi tali
uffici siano in grado di fare le scelte strategiche migliori o optare per i canali di
comunicazione più idonei rispetto al proprio target di riferimento, non è argomento che in
questa sede ci interessa affrontare…
Tale abitudine, invece, sembra non interessare affatto alle piccole e medie imprese italiane.
È ovvio, le eccezioni ci sono sempre, ma tendenzialmente i fatti e la realtà, confermano la
regola: pochissime piccole e medie imprese dispongono di un piano di comunicazione
annuale per la propria comunicazione aziendale e alcune di esse, ne ignorano del tutto
l’esistenza.
Vi è mai successo di trovarvi in una situazione come questa?
Consulente (C): Lei fa pubblicità?
Titolare (T): Certamente, chi non fa pubblicità oggi!
C: Infatti! Quali sono i canali di comunicazione che utilizza?
T: In realtà è mio figlio che si occupa di queste cose… ed è molto bravo perché ha fatto un
“Master sulle strategie di Marketing” a Cambridge… Le faccio un esempio. Mi ha detto che
l’altro giorno è passato un signore con una valigetta, che gli ha chiesto 800,00€ per la
pubblicità della nostra attività su una mezza pagina di questa importantissima rivista di
pattinaggio.
C: Ah interessante sig. T, ma lei si occupa di floricoltura…
T: E allora?
C: Lei ha perfettamente ragione sig. T. Immagino che la scelta di presenziare su una rivista
di pattinaggio, pur occupandosi di floricoltura, ad un costo importante per una singola
uscita, sia stata una decisione ponderata e sicuramente lei ha individuato un ritorno su
questo tipo d’investimento, vero?
T: Ehm – Ehm ____________ Si si assolutamente è stato molto conveniente.
C: Ottimo! Quanti nuovi clienti sono entrati in azienda dopo la sua uscita sulla rivista di
pattinaggio?
T: Bhò, non lo so, 2-3.
C: Questi nuovi clienti hanno acquistato da lei?
T: No, cioè forse si 1.
C: Che budget annuale predispone per la sua comunicazione esterna sig. T?
T: Non saprei dipende. Ogni volta che entra un venditore diverso, con delle proposte che
mi sembrano interessanti, io le compro. Tanto la pubblicità bisogna farla perché la fanno
tutti e qualcosa prima o poi arriva…
La conversazione potrebbe continuare all’infinito.
Quanti sig. T conoscete?
Questo esempio è utile per comprendere come le piccole e medie imprese pensino che la
pubblicità sia una cosa obbligatoria da fare perché tutti la fanno, e farla a pioggia, a
prescindere dal proprio budget, dal proprio mercato di riferimento, sia la cosa giusta.
È surreale parlare dell’importanza della pianificazione della comunicazione nell’era del
web 2.0, degli Iphone, degli Ipad, dei Social Network, ecc. eppure le cose per alcune realtà
non funzionano.
Sembrerebbe che la smania di alcune aziende di portarsi al passo con le nuove tecnologie,
le stia inducendo a perdere di vista le scelte strategiche idonee per la propria sopravvivenza
in questa congiuntura economica preoccupante.
Se qualche tempo fa si poteva pensare alla comunicazione come qualcosa di più “aleatorio”,
vale a dire ci si poteva permettere di introdurre nuovi canali di comunicazione,
indipendentemente dalla garanzia di un effettivo guadagno a livello di immagine e a livello
economico (tempi in cui la crisi era lontana e in cui la comunicazione non era riconosciuta
come disciplina e settore specifico con un proprio ordinamento interno), oggigiorno le
piccole e medie imprese non possono permettersi di non pianificare la propria
comunicazione e non possono permettersi di non sapere se gli investimenti sostenuti
stiano portando loro un ritorno sull’investimento.
La soluzione c’è, basta solo impegnarsi a seguire alcune regole e aver voglia di mettere in
discussione sé stessi e la propria attività:
1. Analizzare la situazione attuale (analizzare il settore della propria attività, in termini di
criticità e punti di forza, posizionamento e concorrenza);
2. Individuare i pubblici (definire e conoscere il proprio target di riferimento);
3. Definire gli obiettivi (stabilire il risultato che si vuole ottenere con la comunicazione
aziendale, senza perdere di vista il budget stabilito e il target di riferimento);
4. Pianificare la strategia di comunicazione (definire la strada da percorrere per
raggiungere gli obiettivi stabiliti);
5. Scegliere le attività e gli strumenti (stabilire in che modo e attraverso quali strumenti
mettere in atto la strategia individuata, integrando strumenti e messaggi in relazione
agli obiettivi e alla strategia);
6. Stabilire i tempi (relativi all’attuazione delle diverse attività per raggiungere gli obiettivi
prefissati);
7. Selezionare le risorse (economiche e professionali da investire nella comunicazione
aziendale);
8. Verificare e valutare i risultati (verifica, analisi e monitoraggio dell’effettivo
raggiungimento degli obiettivi stabiliti e relativa quantificazione del ritorno
sull’investimento attuato).
Semplice vero?
La crisi come testimonianza di una (ir)responsabilità sociale
di Benedetta Andreoli
Parlare di “Responsabilità” o di “Irresponsabilità” sociale d’impresa rinvia al tema delle
scelte, in presenza di conflitti tra valori, di dilemmi circa la scelta dei valori da applicare in
specifici contesti, dove urge optare tra valori confliggenti o addirittura escludenti. Rinvia
dunque a scelte etiche, che si pongono come contemperamento di valori.
Utile per comprendere le dimensioni di un’azienda etica è riprendere la distinzione
hegeliana tra le tre sfere della normatività: moralità, diritto ed eticità.
– La moralità riguarda i valori personali dettati dalla coscienza individuale: nel caso
dell’azienda, ciò che l’imprenditore, i manager e tutti quanti operano in azienda, reputano
giusto o sbagliato.
– Il diritto rinvia alle norme dettate dallo Stato, regole dirette a diminuire le tensioni, che lo
stesso sanziona con i tribunali e con la forza esecutiva. Si pensi, a titolo di esempio, ai
doveri di natura strettamente giuridica cui un’impresa è tenuta. Tra tutti, i reati di
bancarotta, di falso nelle comunicazioni sociali, gli illeciti commessi dagli amministratori.
– L’eticità riguarda quei diritti/doveri che sono condivisi in una relazione duratura e
relativamente stabile tra più soggetti.
Con riferimento specifico al contesto aziendale, non si può così parlare di “etica” in
presenza di comportamenti prescritti dal diritto, né di comportamenti riconducibili alla
“coscienza” dell’imprenditore o del vertice. L’etica riguarda invece quelle scelte e quei
comportamenti che sono l’esito di un incontro tra l’azienda e i suoi “stakeholder”, termine
riferito a quanti hanno interessi specifici nei confronti dei comportamenti aziendali,
proprio in quanto ne possono essere influenzati. Qualifica così in modo diretto la “mission”
della organizzazione, riferendola a una forma di “governance” fondata su un profondo
rispetto di tutti gli “stakeholder”, in base a un modello di valori condivisi. Questo implica
che si vada oltre la mera prospettiva degli interessi degli azionisti – che limita la
responsabilità aziendale all’obbligo morale del miglioramento del profitto degli investitori
– abbracciando la visione della stakeholder theory, aperta a un ampio rispetto dei diritti di
tutti i portatori di interessi.
Perché si possa parlare dunque di impresa “etica” occorre che la stessa:
1. definisca i propri valori chiave;
2. prenda in considerazione gli effetti del suo agire sugli stakeholder;
3. presti attenzione a beni intangibili quali la reputazione, il dialogo o la trasparenza;
4. ottimizzi le esternalità positive come l’occupazione e lo sviluppo socio-economico;
5. faccia il possibile per ridurre le esternalità negative come l’inquinamento e in generale
gli squilibri sociali e ambientali.
Sono questi i temi che costituiscono il cuore dei cosiddetti “Comportamenti Socialmente
Responsabili”, si parla pertanto di Corporate Social Responsibility (CSR).
Sul rapporto tra performance sociale e performance economica, da anni gli studiosi si sono
confrontati senza giungere a conclusioni univoche. Le posizioni dominanti sono le due
seguenti:
A) Non sussiste conflitto tra ruolo economico e ruolo sociale dell’impresa. Già Drucker
aveva rilevato il legame esistente tra “responsabilità sociale” e “performance economica”,
sostenendo che la responsabilità sociale di un’impresa consiste nel trasformare un
interesse pubblico in un’opportunità di guadagno per l’azienda, in modo tale che interesse
pubblico e interesse aziendale vengano a coincidere.
B) La contrapposizione tra finalità economiche e finalità sociali esiste semmai nel breve
termine, in quanto nel lungo periodo è l’integrazione tra equilibrio economico ed equilibrio
sociale a garantire la sopravvivenza e lo sviluppo aziendale. Se in specifici momenti
decisionali la ricerca di opportunità economiche può essere in contrasto con considerazioni
di natura sociale, in una prospettiva di lungo periodo i comportamenti socialmente
responsabili risultano “complementari” rispetto all’obiettivo del profitto, contribuendo ad
innalzare la redditività dell’impresa. Tale relazione di complementarietà può spiegarsi nei
termini seguenti.
1. L’assunzione e l’adempimento di obblighi sociali contribuisce in misura significativa alla
reputazione e alla creazione di un’immagine positiva dell’impresa nelle percezioni degli
stakeholder (interni ed esterni); ciò ha le due seguenti implicazioni:
– favorisce la formazione del “consenso sociale”, che è alla base della “legittimazione
sociale” dell’impresa, indispensabile per continuare ad operare proficuamente
nell’ambiente in cui essa è inserita e dal quale trae le risorse necessarie per l’attuazione
delle proprie strategie di sviluppo.
– consolida la fiducia che gli stakeholder possiedono nei confronti dell’impresa,
contribuendo così a facilitare gli scambi e a ridurre i “costi transazionali”, impliciti in ogni
relazione. Viene in proposito elaborato il concetto di “catena dell’affidabilità”, che si
sviluppa a partire dai comportamenti socialmente responsabili, guidati da principi
realmente etici, che consentirebbero all’impresa di guadagnare la fiducia e quindi la
fidelizzazione dei propri stakeholders.
La reputazione, l’immagine aziendale, la cultura organizzativa, la fiducia, ecc. sono tutte
risorse intangibili che, in quanto difficilmente imitabili da parte delle imprese concorrenti,
possono costituire una fonte rilevante del vantaggio competitivo aziendale, fondato sulla
“differenziazione” rispetto ai concorrenti.
2. L’implementazione di programmi volti a migliorare il benessere del personale determina
una serie di benefici, quali: l’aumento della produttività del lavoro, la riduzione del tasso di
assenteismo, la maggiore capacità di attrarre e di mantenere i “talenti” migliori, ecc. In
proposito, emblematico risulta il caso della Luxottica – azienda italiana leader nella
produzione e vendita di occhiali – la quale nel 2009, in accordo con le organizzazioni
sindacali, ha attivato un programma finalizzato a supportare il potere di acquisto reale dei
dipendenti, fornendo una serie di benefit non monetari, complementari alla retribuzione
monetaria. La motivazione alla base di tale iniziativa è stata proprio la considerazione che
una migliore qualità della vita dei dipendenti costituisce una premessa indispensabile per
una maggiore produttività ed efficacia del lavoro.
3. L’impegno sociale e ambientale può stimolare l’identificazione di nuove opportunità di
business, le quali possono essere fonti di innovazione di prodotto e di processo. Si pensi, ad
esempio, ai nuovi prodotti che incorporano tecnologie per ridurre l’impatto ambientale
derivante dal loro uso nel settore degli elettrodomestici bianchi o delle automobili. Inoltre,
le iniziative volte a migliorare l’ambiente di lavoro all’interno dell’organizzazione aziendale
possono contribuire a creare un ambiente, che stimoli la creatività e la generazione di
nuove idee da parte del personale. Le azioni socialmente responsabili possono contribuire
alla capacità innovativa dell’impresa anche sotto un altro punto di vista: nel contesto
attuale, l’innovazione è sempre più il frutto della collaborazione tra la singola azienda e i
soggetti esterni; se la prima ha sviluppato una “buona” rete di relazioni con gli
stakeholders, avrà maggiori possibilità di realizzare innovazioni di successo, grazie alla
loro disponibilità a collaborare.
Tra performance economica e performance sociale esiste un rapporto di trade-off, poiché
tenere comportamenti socialmente responsabili comporta il sostenimento di costi, che
possono impattare sui prezzi e quindi sulla competitività aziendale o comunque ridurre il
margine di profitto.
Il Marketing. Un valore ancora più intangibile.
di Elena Pierini
Negli ultimi anni vi sono stati notevoli cambiamenti nel business delle imprese e di conseguenza anche nel Marketing.
Un approccio nuovo, chiamato Radical Marketing, come indicato nel libro “Marketing management” di Philip Kotler, è incentrato sull’ottimizzazione di risorse limitate, sullo stretto contatto con i Clienti e sulla creazione di soluzioni più soddisfacenti per le loro esigenze.
La strategia è essenziale ed è il modo in cui un’impresa decide di combinare insieme le sue competenze, i suoi processi chiave e gli altri asset per vincere sul mercato. Gli asset reali di cui parliamo qui sono voci ovviamente fuori bilancio come il valore dei loro marchi, dei dipendenti, dei partner della distribuzione, dei formatori, dei Clienti e del loro capitale intellettuale, ovvero tutte le attività immateriali che probabilmente rappresentano l’80% del valore di un’impresa.
L’impresa ha bisogno soltanto dell’accesso a queste attività e dovrà forse decapitalizzare e quindi affidare in outsourcing alcune attività e ridurre il capitale di esercizio.
I consulenti possono avere un ruolo costruttivo nell’aiutare le imprese a riesaminare le opportunità di mercato, le strategie e le tattiche in questo nuovo scenario organizzativo.
Eppure alcuni imprenditori sostengono: “se abbiamo successo i consulenti non ci servono, se non abbiamo successo, non possiamo permetterceli”.
Abbiamo bisogno di un numero minore di dipendenti e di un numero maggiore di persone che ottengono dei risultati, quindi servitevi dei dipendenti e pagateli anche sulla base dei risultati.
Secondo Kotler, se possedete del personale addetto al marketing, “assumete solo persone entusiaste e piene di gioia di vivere; chi non ha queste qualità forse può andare bene in contabilità”.
Il Cliente è il RE.
Sono i Clienti, non i beni, a scarseggiare e le imprese devono spostare il loro interesse dalla creazione del prodotto al Mantenimento del Cliente.
Nonostante il mantenimento, la fidelizzazione e la fedeltà del Cliente siano essenziali, vi è una nuova visione in merito: “non tutti i Clienti dovrebbero essere conservati”. Vi sono Clienti più problematici, non redditizi, oppure i profitti non controbilanciano le loro capacità di disturbo, ma prima di “licenziarli” è necessario offrire loro la possibilità di migliorare.
Aumentate le spese e/o riducete il servizio offerto.
Se continuano ad essere Clienti, significa che sono diventati redditizi.
Se si riesce a soddisfare un Cliente esigente e redditizio, sarà più facile soddisfare tutti gli altri.
Non dimentichiamo che il mantra originale del marketing è “individuare le esigenze del cliente e soddisfarle”.
Tra le competenze più importanti del marketing vi sono anche la comunicazione e la promozione.
L’abbigliamento di un venditore comunica, il prezzo di listino comunica, gli uffici comunicano, tutto crea delle
impressioni negli interlocutori.
Di qui il crescente interesse per le comunicazioni integrate di marketing (Integrated Marketing Communications).
La promozione è quella parte della comunicazione che consiste nei messaggi dell’impresa concepiti per stimolare l’interesse per i suoi prodotti/servizi e quindi l’acquisto di essi. La promozione può non essere efficace se non attira l’attenzione!
Non è una novità dire che oggi le imprese si trovano ad investire più nel marketing che nella creazione del prodotto, basti pensare che i produttori di “The Blair Witch Project” hanno speso 350.000 dollari per produrre il film e 11 milioni di dollari per commercializzarlo.
Tornando al nuovo approccio di Radical Marketing, nel volume di Sam Hill e Glenn Rifkin, vi sono delle linee guida per aiutare le imprese a fare marketing radicale, elenco alcune di esse:
· La funzione di marketing deve essere incentrata sul CEO;
· Assicurarsi che la funzione marketing sia snella, quindi evitare il proliferare dei livelli gestionali per non accrescere la distanza dal mercato;
· Intrattenere rapporti diretti con le persone che contano di più: i Clienti;
· Utilizzare le ricerche di mercato con cautela, non accontentiamoci di risultati statistici che descrivono il consumatore medio;
· Assumere solo persone motivate;
· Amare e rispettare i Clienti come individui e non come numeri all’interno di un foglio elettronico, occorre riconoscere che i Clienti principali sono all’origine dei maggiori successi delle proprie organizzazioni;
· Utilizzare messaggi pubblicitari brevi e mirati;
· Ricorrere ad idee fresche ed originali, per esempio decidendo di limitare la distribuzione in modo da sollecitare la fedeltà e l’interesse dei propri Clienti e distributori.
Per conquistare un’elevata produttività e redditività nel marketing, occorre quindi che l’impresa raccolga ogni tipo e il maggior numero di informazioni dai suoi stakeholder, che sia concentrata sulle esigenze, le preferenze, e il comportamento dei clienti e motivi i suoi stakeholder affinchè si impegnino con tutte le loro forze a servirli e a soddisfarli, che instauri partnership con i suoi stakeholder e li gratifichi, che costruisca marchi forti utilizzando gli strumenti comunicativi e promozionali con il miglior rapporto costo/efficacia, che sviluppi una leadership di marketing e lo spirito di squadra tra i vari dipartimenti. Quindi in sostanza ciò che si richiede adesso è una grande
capacità di Differenziarsi.
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Gli errori dei manager
di Paola Danese
Siete a capo di un gruppo di persone? Tra i vostri compiti c’è anche quello di far ottenere loro dei risultati, di migliorarne le prestazioni? E vi piacerebbe anche che a fine serata, se vi vedessero abbacchiati, avessero voglia di fermarsi a fare quattro chiacchiere con la persona e non solo con il manager?! Quante volte vi è capitato di chiedervi come ottenere tutto ciò o perché ogni tanto o da qualche parte il meccanismo si inceppa?
Questa newsletter vuole essere un piccolo vademecum dei principali errori dei manager, non solo per fare in modo che le loro performance migliorino, ma per migliorare di pari passo anche la vita di quelli che da loro sono gestiti e quindi in realtà l’andamento dell’azienda.
Molti ritengono che i leader debbano avere carisma. Tuttavia, ad esempio secondo Kotler, per essere efficaci non occorre carisma. Molti grandi leader non si affannano a costruirsi un’immagine carismatica; sono amabili, spesso semplici, e mostrano un reale interesse per clienti e dipendenti.
Partiamo da alcuni concetti base:
1) LA DELEGA
Se gestite delle persone significa che avete responsabilità complesse e che nel perseguimento dei risultati avete bisogno di un team che lavori con voi. Quindi avete delegato dei compiti. La questione è: fino a che punto avete delegato? Warren Buffet dice che bisognerebbe delegare “fino al passo prima dell’abdicazione”. Questo va contro il senso comune e la diffusa tendenza a controllare ogni evento ed ogni persona che ne è coinvolta. Tuttavia controllare ogni cosa porta alla micro – gestione (micro management), cioè a seguire fin nei dettagli un insieme così numeroso di eventi o linee di business che, nel caso in cui ne saltasse una, finirebbero per saltare tutte. La soluzione quindi è non solo necessaria ma strategica: ogni compito necessita di competenze specifiche ed approfondite che il manager difficilmente riesce a racchiudere in sé ad alti livelli di complessità. Il suo ruolo fondamentale diventa allora ispirare i propri collaboratori perché accrescano le loro specificità e siano grandi nel perseguimento degli obiettivi loro assegnati. La competenza e lo spazio decisionale devono mantenere un rapporto di crescita diretta: massima competenza, massima libertà nelle scelte; in questo modo non solo chi supervisiona si libera di un compito, ma alimenta l’orgoglio professionale del proprio collaboratore: collaboratori capaci al posto giusto vogliono dimostrare con caparbietà le proprie competenze, e per farlo hanno bisogno di spazio.
Prima di ogni processo di delega però è necessario assicurarsi che il collaboratore sia dotato di integrità e lealtà in tutte le 24 ore della giornata e non solo fino al timbro del cartellino.
2) SOSTITUZIONI AI VERTICI
La domanda chiave da porsi quando inizia a diventare allettante la prospettiva di effettuare un cambiamento in posizioni manageriali è: “è assolutamente necessario?”. Perché se da una parte questi cambiamenti sono divoratori di tempo ed energie e spesso portano più guai che miglioramenti, dall’altra bisogna anche ammettere che sono delle porte aperte su un mondo di opportunità. Se la risposta alla fatidica domanda è no, allora lasciamo le cose come stanno e diamo supporto. Ma se la risposta è si, ed è corredata da ampi schemi excel con un meno davanti, allora è bene se a questo cambiamento arriviamo preparati, avendo fatto crescere all’interno della squadra o dell’azienda un collaboratore che già conosce ogni aspetto della posizione e dell’attività svolta, che ha già vissuto dall’interno gli errori commessi e magari si è disegnato una sua idea delle azioni correttive da intraprendere. Subito, senza perdere tempo.
3) I PARAMETRI DI SCELTA DEI COLLABORATORI
Quante volte vi siete trovati davanti al bivio tra il candidato super preparato con anni di esperienza che si presentava all’ultimo colloquio con il sorriso appena abbozzato di chi sta per aggiungere un’azienda prestigiosa al proprio curriculum e quello giovane senza esperienza, che ha mandato il cv tre volte per email e due brevi manu, che sogna da quando si è iscritto all’università il tipo di lavoro che gli state offrendo? Mai? Allora prima o poi vi capiterà, e sarà probabile che alla prova dei fatti cediate al luogo comune di ritenere che il candidato tecnicamente preparato vi sarà d’aiuto subito e crescerà proporzionalmente al costo che sosterrete per mantenerlo.
Non è così. Scegliete uomini capaci, certamente, ma le cui capacità siano strettamente legate alla passione che mettono nel loro lavoro, nel prodotto che costruiscono, che aggiustano o che vendono. Scegliete venditori che amano ciò che offrono, e trasmetteranno a chiunque la loro incredibile passione perché spinto dall’interesse per qualcosa che lo affascina, ne conoscerà ogni dettaglio, riuscirà a proporne applicazioni impensate, ne illustrerà l’efficacia elencandone i benefici che se ne posso trarre tanto che il cliente ne rimarrà impressionato. E soprattutto, avrete un collaboratore orgoglioso di appartenere ad un’azienda che ha creduto in lui quando ancora da offrire aveva soltanto l’entusiasmo. Sull’entusiasmo potete investire: è un investimento che porta profitto.
In una squadra così costruita, non è importante quanto sia intelligente il collaboratore, ma quanto sia appassionato al lavoro, quanto ami ciò che sta facendo.
…alziamo un po’ il tiro:
4) SAPER CONVINCERE L’INTERLOCUTORE
Arriviamo nel vivo della questione: c’è chi con il carisma ci è nato e il tempo gli è servito soltanto per imparare ad usarlo e chi, invece, non solo non lo ha ricevuto in dote, ma neppure è riuscito a costruirselo. Come fare? Se le doti del grande comunicatore non è possibile accumularle in tempi brevi, almeno cerchiamo di evitare gli errori più dannosi: tendenzialmente l’interlocutore evita di seguire i consigli suggeritigli da chi riesce a farlo sentire colpevole e contemporaneamente sappiamo, almeno per esperienza diretta, che poche sono le sensazioni migliori di quelle del sentirsi apprezzato. Nell’invitare gli altri a fare qualcosa per noi, o nella modalità o con i tempi che ci sono congeniali, appelliamoci alla parte migliore del nostro interlocutore, ricordiamogli quanto è riuscito in passato ad essere grande nello svolgere quel compito o nel raggiungere quel risultato. Così facendo risveglieremo il suo orgoglio e faremo appello alla parte migliore di lui.
6) MUOVERE LE CRITICHE
Allo stesso modo è necessario fare molta attenzione a come si struttura una critica. A nessuno piace essere criticato e niente ci può fare sentire peggio riguardo a noi stessi dell’essere criticato per qualcosa che abbiamo fatto o che abbiamo omesso di fare. Niente ci ispira meno. La critica significa che abbiamo fatto qualcosa in modo sbagliato, che quella che seguivamo non era la strada giusta per noi, che dobbiamo interrompere ciò che stiamo facendo e riprovare o lasciar perdere e fare qualcos’altro. Spesso le persone che ci criticano non ci piacciono, che significa che non le vogliamo ascoltare e che con molta probabilità non le ascolteremo. Cerchiamo quindi di correggere gli altri dando indicazioni sottointese, facendo ragionare chi sbaglia ponendo delle domande che lo portino da solo a trarre le conclusioni oppure raccontando una storia in cui in prima persona abbiamo avuto un’idea simile che poi ci ha portato a conseguenze negative: il nostro interlocutore arriverà da solo alle conclusioni e avremo evitato di negativizzarlo.
Ricordiamoci che per convincere qualcuno, il primo passo da fare è convincerlo ad ascoltarci. E quale altro modo esiste migliore per farci ascoltare se non complimentandoci? I complimenti ci rendono amichevoli, e le opinioni delle persone che ci piacciono sono quelle che ci stanno a cuore. Un complimento crea quell’ambiente di fiducia necessario per una critica costruttiva che venga non solo ascoltata ma anche seguita.
7) AMMETTERE I PROPRI ERRORI
Capita a tutti di sbagliare e non è tanto la dimensione dell’errore a contare ma come lo si accetta e cosa si riesce ad imparare da esso. La tendenza generale di fronte ad un fallimento, a una valutazione scorretta, ad un passo falso è di sforzarsi nell’individuare altri colpevoli, o esempi precedenti che hanno commesso lo stesso errore. Chi vi osserva da fuori e vi ha preso come punto di riferimento però cosa vede? Probabilmente avrà l’impressione che si voglia nascondere qualcosa o che la persona non abbia né il coraggio né l’integrità di ammettere le proprie “colpe”; questo si trasformerà in un senso di diffusa sfiducia che minerà i rapporti complessivi. Perché allora non ammettere platealmente e subito di aver sbagliato, assumendosene per intero la piena responsabilità? Non esistono azioni perfette, solo intenzioni perfette; quando ci accorgiamo dello scostamento delle une dalle altre, guadagniamo di più a fare un passo indietro e cercare subito le correzioni, anziché intestardirci e perseverare nell’errore.
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La corretta ed efficace gestione del nostro BRAND
di Errico Grisot
Molti osservatori politici ed economici concordano nell’affermare che l’attuale situazione di incertezza economica dei mercati non è mai stata così marcata.
Le aziende stanno navigando a vista e il futuro della ripresa economica sembra sempre più lontano e soprattutto controverso. In questi ultimi mesi nella zona euro si sono evidenziate debolezze strutturali suggerite dall’instabilità dei mercati dei titoli di stato. Quest’ultimo fattore di rischio viene gestito dai singoli Stati implementando politiche fiscali più rigorose e più aggressive.
Il mondo produttivo europeo quindi, oltre a subire da qualche anno una difficoltà nell’accesso al credito dovuto alle nuove regole di Basilea, ora affronta anche una recessione globale dei mercati ed in futuro dovrà farsi carico di assorbire un rinnovato rigore della spesa pubblica.
Questo richiede cambiamenti importanti sia per le aziende sia per i singoli lavoratori. Il mercato economico ed il mercato del lavoro imporranno ai propri attori incisivi cambiamenti di comportamento. Il cambiamento nei mercati italiani, europei ed extra europei è diventata una necessità ineluttabile.
Chi non è in grado di concepire ed attuare una modifica delle proprie strategie di medio e lungo periodo non avrà spazio nei prossimi anni. Le aziende italiane, per crescere in un panorama così mutevole mese dopo mese, toccano l’urgenza di sviluppare nuove iniziative commerciali, produttive e nuove soluzioni organizzative che le rendano più adatte ad un clima di incertezza che si sta consolidando. Il mercato del lavoro italiano sta fortemente penalizzando i giovani e coloro che devono riposizionarsi professionalmente.
Quello a cui stiamo assistendo è il consolidamento di mercati instabili cioè mercati in continuo movimento, che se da una parte fanno cadere vecchie certezze, dall’altra non mostrano nuove strade da percorrere.
Incontriamo aziende e imprenditori che quasi vivono alla giornata perché non sono in grado di prevedere cosa potrebbe accadere alla loro struttura tra qualche mese. Quando a settembre l’Italia tornerà dalle ferie di agosto su che mercato si lavorerà? Pochi possono dirlo. Nel nostro paese, oltretutto, per gestire l’emergenza di questi cambiamenti si stanno utilizzando con generosità gli ammortizzatori sociali, ma le indicazioni che provengono dalle istituzioni internazionali spingono affinché queste misure non si protraggano oltre il 2011. Questo significa dover ricominciare a camminare con le proprie gambe in tempi relativamente brevi. Il terreno però non sarà più quello di prima ma completamente diverso.
Sia le aziende che i lavoratori devono sviluppare nuovi paradigmi interpretativi per non percorrere strade infruttuose che non portano in nessun luogo. Le aziende si guardano attorno e si chiedono: dove posso incontrare nuovi clienti che mi facciano crescere apprezzando i miei prodotti o servizi? E i singoli lavoratori allo stesso modo si guardano attorno e si fanno una domanda simile: dove sarà la nuova azienda che mi farà nuovamente crescere professionalmente e mi darà l’opportunità di mantenere e migliorare il mio livello reddituale?
Una risposta a queste due domande non esiste. Per avere una risposta bisogna essere in grado di costruirla, chi non è in grado di costruirsi una risposta non sopravvive e chiude oppure si accontenta e fa dei pericolosi passi indietro. Cominciamo quindi a scomporre il problema e diamo qualche indicazione.
Il modello che la maggior parte delle aziende italiane ha seguito sin qui sta mostrando il fiato corto. Il prodotto o il servizio che veicoliamo è stato concepito fino ad ora come il nostro segno di riconoscimento: quello che noi produciamo racconta la nostra storia ed è così importante che mette in secondo piano tutto. Quindi tutte le nostre energie sono dirette alla costruzione del prodotto. Il budget dell’azienda è fortemente sbilanciato in favore della produzione e della ricerca e sviluppo a scapito dell’area commerciale. L’oggetto che mettiamo in vendita nei nostri negozi, la pizza che serviamo, il lavorato che esce dai nostri torni o dalle nostre macchine è così di alta qualità che racconta a tutti il motivo per cui i nostri clienti ci pagano.
Anche il professionista è abituato a concentrare le proprie energie per la costruzione ed erogazione di un servizio eccellente. Questo è un lavoro importante: il prodotto veicola la nostra immagine ed identità e deve essere impeccabile.
Ma ora il prodotto o il servizio che noi vendiamo è ancora sufficiente per dire al mondo chi siamo e come creiamo valore aggiunto?
Le grandi aziende multinazionali da anni investono quantità enormi di denaro per andare oltre questo concetto: hanno spostato l’attenzione dal prodotto o servizio alla loro immagine ed identità. Fino poco tempo fa riuscire in questo progetto richiedeva ingenti capitali non alla portata delle piccole medie aziende italiane e nemmeno alla portata dei singoli professionisti. Significava infatti comunicare valori e immagini attraverso canali costosi e di grande impatto, solamente le aziende che dovevano rivolgersi ad un ampio pubblico avevano l’interesse a investire in questa direzione.
Ora i canali comunicativi a disposizione sono cambiati e sono diventati accessibili a tutti,
se la grande industria ha investito tanto per spostare l’attenzione dei clienti da un paio di scarpe sportive ad un logo, perché non possiamo fare lo stesso con la nostra azienda o con noi stessi? Questo spostamento è così rilevante che non solo caratterizza il nuovo modo di comunicare delle aziende ma anche dei professionisti e dei singoli lavoratori dipendenti.
Le aziende piccole e medie invece hanno utilizzato fino ad ora strumenti di comunicazione più mirati, basati sulla pubblicizzazione di ciò che producono e di quello che fanno attraverso fiere, cataloghi e brochures. Ma queste attività non danno più lo stesso riscontro del passato, poiché non sono solo i prodotti o servizi che devono attrarre l’interesse dei nostri clienti. La nostra professionalità genera più interesse di ciò che realmente vendiamo, perché è la nostra immagine ed identità professionale che trasmette la fiducia al cliente di ricevere la soluzione giusta alle proprie mutevoli esigenze.
L’aspetto sempre più rilevante della comunicazione della nostra identità professionale è la corretta ed efficace gestione del proprio BRAND. Perché questo contribuisce alla costruzione della fiducia che lega il cliente al proprio fornitore.
In un mercato del lavoro sempre più difficile e competitivo l’attenzione al proprio brand è diventata il punto di partenza nella gestione della carriera lavorativa. Il processo di creazione del proprio “marchio distintivo” si sta estendendo velocemente attraverso le nuove tecnologie dell’informazione. Negli ultimi anni Internet si sta caratterizzando come un ottimo canale comunicativo della propria immagine professionale e personale sia per l’economicità dello strumento sia per la sua efficacia. La rapida crescita dei social network evidenzia questo sviluppo. All’inizio c’erano i siti internet “vetrina” delle singole aziende, ora troviamo le pagine di coloro che creano valore aggiunto alle stesse aziende. Poi ci sono anche le pagine dei loro figli, dei loro nonni. Tutti in qualche modo anche inconsapevolmente stanno costruendo il proprio “personal brand”.
Sia che siate un’azienda, sia un professionista oppure un lavoratore dipendente la costruzione del vostro brand è finalizzato alla realizzazione di tre importanti obiettivi:
1- mostrare una identità credibile, affidabile e soprattutto distintiva della vostra professionalità
2- trasmettere un messaggio convincente agli altri di chi siete e cosa fate
3- facilitare nuove opportunità di collaborazione ed accrescere le vostre relazioni
Questi obiettivi possono essere raggiunti solamente se la vostra attenzione è rivolta costantemente a ciò che nel vostro lavoro crea valore aggiunto. Una volta individuato possiamo trasformarlo in un messaggio da diffondere.
Quando i vostri clienti e conoscenti sentono il vostro nome o il nome della vostra azienda, oppure leggono questo nome su internet, sulla stampa o su una email che avete appena inviato loro, a che cosa pensano?
Quali sono le parole che vorreste che gli altri utilizzassero per definirvi? Quali sono gli aggettivi che i vostri clienti e potenziali clienti oggi utilizzano per descrivere la vostra azienda?
Lo sviluppo e la gestione del brand influenza le risposte a queste domande.
Quando la Apple ha deciso di spiegare al mondo che loro realizzavano prodotti diversi dai concorrenti perché “pensavano delle cose differenti”, ha investito quantità enormi di denaro. Ora invece abbiamo la possibilità di spiegare perché noi siamo differenti dai nostri concorrenti praticamente gratis. La capacità di costruire e diffondere il proprio brand è passata dalle multinazionali ai singoli individui.
Ci sono però due avvertenze da sottolineare: qual è la differenza tra quello che trasmettiamo agli altri e quello che siamo realmente? Se questi due aspetti non sono allineati che cosa si rischia?
Inoltre la diffusione della nostra identità e della nostra immagine è molto appetibile verso aziende che hanno bisogno di raccogliere date sui propri consumatori per poter comunicare direttamente con loro. Il piccolo prezzo che paghiamo per poter diffondere il nostro brand sono le informazioni su di noi che sono utili ad altri.
La creazione del proprio brand coinvolge numerosi aspetti che vanno considerati attentamente per non rischiare di utilizzare delle tecniche così potenti contro noi stessi. Le aziende, anche di piccole dimensioni e con budget limitati, ormai si affidano a professionisti per curare delicato aspetto della crescita della loro attività. Forse anche da noi qualche singolo professionista farebbe bene ad investire parte del suo budget per la definizione e corretta diffusione del proprio unico brand.
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UNA LUNGA CRISI CHE NASCONDE E GIUSTIFICA MOLTE INADEGUATEZZE: ANALISI E STRATEGIE D’USCITA
di Maurizio Siciliano
La scorsa settimana sul nostro Blog è stato pubblicato un articolo interessante a firma Doctor Who dal titolo (capitani coraggiosi, armiamoci e partite), piuttosto polemico, appunto, verso una classe imprenditoriale spesso definita incapace. La tesi esposta è condivisibile e riconducibile anche ai motivi fondamentali per cui oggi la durata media della vita delle aziende è bassissima.
Secondo una ricerca della Royal Dutch Shell del 1983, condotta sulla lista Fortune delle prime 500 multinazionali al mondo, poche grandi imprese vivevano oltre i 40 anni. Oggi, alla luce dei recenti sconvolgimenti finanziari in ambito globale, il dato di cui sopra è notevolmente peggiorato e per quanto riguarda le piccole e medie aziende italiane è diventato preoccupante.
Conosciamo tutti il ciclo di vita di un impresa: start up, fase di break even, momento di massimo sviluppo dell’attività a cui segue inesorabile una fase calante, prima impercettibile e successivamente inarrestabile. Quando ci si rende conto della situazione il ritardo accumulato è spesso irrecuperabile. Nel momento della discesa è difficile trovare le energie per invertire la tendenza e quando ci si trova di fronte a risultati fortemente negativi e a conseguenti crisi finanziarie, ci si deve affidare a soluzioni di Tourn-around che non sempre sono sufficienti e quindi l’azienda lentamente, e agonicamente, muore.
Gli imprenditori che abbiamo incontrato negli ultimi tempi sono spesso in queste situazioni. Sovente attribuiscono i motivi delle loro difficoltà alle cicliche crisi di mercato, alla concorrenza spesso aggressiva e “scorretta”, alle banche che non concedono più credito a buon mercato e al turn-over di personale. Noi sappiamo però che molti di questi fattori si possono gestire perché fanno parte della capacità di programmare e prevedere. Secondo me ci sono da considerare alcune altre cause, e spesso le elenco ai miei clienti imprenditori: scelte strategiche insensate e velleitarie, investimenti insufficienti, scarsa capacità di innovare, tendenza a privilegiare i terreni di “confort” e le rendite di posizione, incapacità di inserire nuove risorse, favorire cambiamenti negativi della motivazione del personale e, cito Doctor Who, incapacità di mantenere in azienda solo ciò che produce Valore. E questa è solo la punta dell’iceberg! La massa che ci sta sotto è il vero problema: mancanza di Leadership e strategia. E proprio come la massa di ghiaccio immersa che nasconde le vere dimensioni dell’iceberg, questo è un problema impercettibile, ma che dispiega i suoi effetti in una spirale che nel tempo è distruttiva. I problemi dell’oggi sono spesso la conseguenza di questa mancanza di Leadership e della incapacità di fare scelte strategiche corrette. Le conseguenze sono precipitose e si manifestano alla lunga in prepotenti problematiche economiche e finanziarie. Comincia una rincorsa infruttuosa per coprire le falle e restare a galla: il carosello del “tagli dei costi”. Ma ormai il gioco è finito.
Insomma, stiamo tutti sul mercato e a volte si possono avere delle difficoltà perché cambiano le condizioni. Ma le condizioni cambiano per tutti gli attori e i competitor del mercato e se si “perde” la strada della crescita, del Valore e del profitto è perché non abbiamo previsto il cambiamento o perché, prevedendolo, non abbiamo scelto la strategia migliore per affrontarlo!
La crisi finanziaria recente ha accentuato le differenze tra gli imprenditori e i manager che sanno affrontare la “tempesta” e quelli che, pensando di salvare la “nave”, hanno tagliato costi e buttato via in maniera indiscriminata tutto quello che secondo loro è “zavorra”. Eppure, banalmente, basterebbe riconoscere i propri limiti e farsi aiutare.
Le aziende che hanno continuato ad investire sui propri dipendenti e collaboratori in maniera strategica, sono quelle che stanno affrontando in maniera impeccabile la crisi.
Secondo una recente inchiesta di Hay Group, pubblicata su Fortune, ” i manager di queste aziende credono davvero che in ogni impresa le Persone sono il loro bene più prezioso”. Quanti dei nostri manager e imprenditori impegnati nel “carosello” del taglio dei costi ad ogni costo possono dire di pensare lo stesso?!
Analizzando da vicino i dati della ricerca di Hay Group viene fuori un dato inequivocabile, ma molto lontano dalla cultura media aziendale di imprenditori e manager che incontriamo ogni giorno: le Persone sono una risorsa, non una spesa.
Tuttavia, ci sono ancora operatori, imprenditori ci sembra una parola grossa, che in tempi di crisi sistemica e prolungata abbattono la scure della riduzione dei costi sui propri collaboratori. I risultati sono tangibili e visibili: le aziende perdono Valore e quote di mercato. In un lento ed inesorabile processo auto degenerativo lentamente si trasformano nel concime di cui il mercato si nutre per sopravvivere.
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