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Giulio Turcato alla Galleria d’Arte Marchetti di Roma: i “colori mai visti” di un grande pittore del ‘900

A partire da giovedì 15 aprile 2021 (compatibilmente con eventuali restrizioni anti-Covid19) la Galleria Marchetti di Roma (Via Margutta 8) ospiterà la mostra Giulio Turcato. Colori mai visti, realizzata in collaborazione con L’Archivio Giulio Turcato. In esposizione 25 dipinti, a delineare un percorso attraverso tutta la parabola creativa dell’artista – nato nel 1912 a Mantova e scomparso a Roma nel 1995 – fra i più significativi interpreti dell’astrazione europea: dalla figurazione stilizzante dei Comizi, delle Rovine di Varsavia, delle “Venezie”, all’astrazione “informale” dei Reticoli e dei Desertici, alla geniale creazione delle Superfici lunari, alla giocosa “cartografia” di Itinerari e Arcipelaghi, al sontuoso e sensuale luminismo dei Cangianti. Aprirà il percorso l’opera cronologicamente più precoce presente nell’Archivio Turcato: l’inedito dipinto bifronte del 1928-30, su un lato del quale un giovanissimo Giulio Turcato dipinge un Interno, e sull’altro un Porto. A concludere il percorso, l’ultima opera pittorica di grandi dimensioni di Turcato: Dune, del 1992, la cui straordinaria qualità e raffinatezza testimonia della forza creativa conservata dall’artista fino ai suoi ultimi anni . Prima di questa, la galleria Marchetti aveva dedicato a Turcato personali nel 2008 e nel 2011, e un omaggio in occasione del centenario della nascita nel 2012, all’interno della mostra A partire da Forma 1 – Percorsi nell’astrattismo . Catalogo in galleria (Grafiche Turato Edizioni, Padova).
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Giulio Turcato ha arricchito il ‘900 artistico del proprio inimitabile linguaggio, facendo del colore la ragione di una ricerca inesausta, di una sperimentazione durata sino ai suoi ultimissimi anni di vita. Chiunque si accosti al corpus delle sue opere può rendersi conto che si tratta di un esploratore straordinario, che ha fatto dell’arte il codice per interpretare il mondo in tutti i suoi aspetti, dalla biologia all’entomologia, dalla fisica all’astronomia: tutto per lui diventa occasione per nuove invenzioni di forme e colori che ridefiniscono l’immaginario umano, individuale e collettivo, nel momento stesso in cui interpretano i vari modelli di conoscenza. Tutto ciò risulta evidente nella mostra in programma presso la Galleria Marchetti di Roma a partire dal 15 aprile prossimo: si tratta di 25 dipinti che coprono tutto l’arco della ricerca artistica di Turcato, a partire da un interessante quadro inedito, dipinto tra i sedici e i diciotto anni di età, sui due lati: un Interno borghese e un Porto con barche, che risentono di influssi post-impressionisti e matissiani e testimoniano già, nei luminosi à plat, della fascinazione del giovane artista per il colore; e ancora, a inizio percorso, un prezioso Comizio del 1948, dove il tema socio-politico si svincola dalle regole della riproduzione del reale per spiccare il volo verso un’astrazione libera e policromatica; un Rio veneziano (1948-49) che è piuttosto una sinfonia musicale di linee rette e curve, con delicati tocchi materici, una sorta di controcanto lirico al maestoso Cantiere navale del ’47 (l’anno del manifesto di Forma1), con i suoi echi di neoplasticismo. Negli anni ’50, il maturarsi della ricerca astratta di Turcato ci colpisce in un bellissimo esemplare della celebre serie Rovine di Varsavia del (1950), e ancor di più nell’armoniosa e magica policromia di uno strepitoso Giardino di Mičurin del ‘53. Segno, colore, materia si alternano, si combinano o si fondono , in questo decennio, nella personalissima ricerca informale di Turcato, dando origine ai Reticoli, ai Desertici, ai Segnici, sino ad aprire il nuovo decennio con l’affascinante Nebuloso (1960). Gli anni ’60 vedono il colore-materia di Turcato aprirsi alla nuova dimensione del collage, con opere che dialogano con il Nouveau Réalisme e con il New Dada, come quelle delle celebri serie dei Tranquillanti o de La pelle (di cui sono qui presenti due importanti esemplari del 1962) o lavori come Arcipelago con moneta (1964). Di questi anni è anche la geniale invenzione delle Superfici lunari (quella in esposizione è del 1968), dove la materia primigenia dell’Informale si trasforma nel materiale industriale delle “gommepiume”, per trasfigurarsi però in inedita e lirica cosmologia . Negli anni ’70 si sviluppa il raffinato studio sul cangiantismo dei materiali in rapporto alla luce e al punto di vista dello spettatore, insieme a una sempre più intensa e complessa interazione tra materia, forma e colore , sino ad arrivare agli inediti prodigi cromatici degli anni ’80-’90, che culminano nel finissimo arabesco materico-cromatico di un dipinto come Dune (1992), dove la sapienza tecnica è tutt’uno con lo slancio poetico. Giulio Turcato Viene considerato uno dei più significativi interpreti italiani dell’astrattismo, ma il suo lavoro è assai articolato e complesso: quello che contraddistingue la sua poetica è un “nomadismo interiore” che gli ha permesso di affrontare l’astrazione con radicalità e anticonformismo, con determinazione e lirismo, senza mai rinunciare alla sperimentazione. E’ viva in lui l’aspirazione a un totalizzante universo pittorico, che gli permette di trasformare in pittura ogni cosa toccata dalla sua immaginazione, al di là di ogni discriminante tecnica ed esecutiva. Il demone eterno e sempre mutevole di Turcato è il colore, che ora fa corpo con la materia profonda e densa dell’opera, ora brilla di un timbro dissonante, svelato dalle diverse incidenze della luce. Come scrive lo stesso artista, nel 1977: “ i colori sono la nostra libertà/ investono la materia e la trasformano/ la nostra fantasia è realtà nuova”.
SCHEDA TECNICA
Mostra: Giulio Turcato – Colori mai visti A cura di: S. Pegoraro, con la collaborazione dell’Archivio Giulio Turcato, Roma Sede: Galleria d’Arte Marchetti Indirizzo: Via Margutta 8, 00187 Roma Periodo espositivo: 15 aprile –17 giugno 2021(compatibilmente con eventuali restrizioni anti-Covid) Ingresso: libero (con mascherina correttamente indossata e rispetto della distanza regolamentare tra le persone, nell’osservanza delle norme anti Covid-19)
Catalogo : Grafiche Turato Edizioni, Padova Orari: LU 16.30-19.30 ; MAR-SA 10.30-13.00 / 16.30-19.30 Informazioni: tel. 06 3204863; www.artemarchetti.it , [email protected]






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La galleria Marchetti di Roma rende omaggio a Plinio De Martiis, a dieci anni dalla scomparsa

Giovedì 2 ottobre 2014, presso la Galleria Marchetti di Roma (Via Margutta 8), si inaugurerà la mostra  Artisti italiani della Tartaruga –  Nel  Decennale della scomparsa di Plinio De Martiis (a cura di Silvia Pegoraro), aperta fino al 22 novembre. La Galleria intende così rendere omaggio – con opere della propria collezione –  a un grande personaggio del mondo dell’arte, scomparso nel 2004 : il suo talento, sia come fotografo che come gallerista, ideatore e organizzatore di eventi culturali, e la sua attività, ricchissima di straordinarie iniziative e di lungimiranza culturale, non sono stati ancora sufficientemente valorizzati. Il più importante riconoscimento gli era stato tributato nel 2003 da Duccio Trombadori, che in qualità di Presidente della Giuria della 54° edizione del Premio Michetti, gli aveva fatto assegnare il “Premio Michetti alla Carriera”. Nel 2007 la Regione Abruzzo (di cui era originario) aveva voluto omaggiarlo con una grande mostra alla sua memoria, presso il Museo Vittoria Colonna di Pescara, dove erano presenti i maggiori artisti internazionali che aveva lanciato, in Italia e in Europa, da Rauschenberg a Twombly, da Appel a Wols, e una selezione di splendide foto da lui scattate agli artisti e ai personaggi del mondo della cultura che frequentavano la sua mitica galleria La Tartaruga (fondata nel ’54), da Duchamp a Ungaretti, a Leo Castelli.

Nella mostra in programma alla Galleria Marchetti verranno esposti lavori (alcuni del tutto inediti) di 31 fra i maggiori artisti italiani che lavorarono con De Martiis ed esposero presso la Tartaruga tra gli anni ’50 e gli anni ’80 : Franco Angeli, Ugo Attardi, Luigi Boille, Giuseppe Capogrossi, Antonio Corpora, Stefano Di Stasio, Piero Dorazio, Tano Festa, Lucio Fontana, Sergio Lombardo, Mino Maccari,  Mario Mafai,  Renato Mambor, Titina Maselli, Eliseo Mattiacci, Sante Monachesi, Marcello Muccini,  Gianfranco Notargiacomo, Gastone Novelli, Giovanni Omiccioli, Achille Perilli, Fausto Pirandello, Antonietta Raphaël, Mimmo Rotella, Giuseppe Santomaso, Mario Schifano, Antonio Scordia, Cesare Tacchi, Giulio Turcato, Antonio Vangelli, Emilio Vedova.

Catalogo Grafiche Turato Edizioni, con testi della curatrice, estratti di interviste a Plinio De Martiis, e la cronologia completa delle mostre e degli eventi della Galleria La Tartaruga.

 

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Plinio De Martiis e  “La Tartaruga”

 

Nato a Giulianova (Teramo) nel 1920, Plinio De Martiis lasciò da ragazzino la città natale insieme ai genitori, per andare a vivere a Roma. Fin da ragazzo si appassionò alla fotografia, al cinema e al teatro, frequentando il gruppo del “Teatro dell’Arlecchino”, insieme a Franca Valeri, Carlo Mazzarella e Vittorio Caprioli. Aderì ben presto all’antifascismo, e dopo la guerra diventò funzionario del Partito Comunista Italiano.Nel 1954 – suscitando diverse polemiche – si allontanò dal PCI per aprire la mitica galleria d’arte “La Tartaruga”. La nascita della Galleria avvenne quasi per caso, in una serata tra amici, nel 1954, quando dentro un cappello – di Mario Mafai – furono messi 5 bigliettini piegati per estrarre a sorte il nome della galleria: fu estratto un bigliettino con su scritto “la Tartaruga”. Lo aveva scritto Mino Maccari.  Il 25 febbraio del 1954, Plinio De Martiis inaugurò la Galleria d’Arte in Via del Babuino, a pochi passi da Piazza del Popolo, insieme alla moglie, Antonietta Pirandello (nipote di Luigi Pirandello). Gli ispiratori di questa nuova avventura furono Leoncillo, Leonardi, Salvatore Scarpitta, Mario Mafai e Giulio Turcato, artisti italiani già affermati nel panorama nazionale ed internazionale. Oltre alle mostre dedicate a questi artisti, si tennero negli anni ’50 importanti mostre di artisti come Afro e Burri,  Fausto Pirandello, Dorazio, Novelli, Perilli, Rotella, Corpora, Consagra, Colla (con la sua prima personale a Roma), Karel Appel e Asger Jorn  (entrambi con la loro prima personale a Roma). Tra il ‘57 e il ‘59, la Galleria “La Tartaruga” lanciò, per prima in Europa, l’arte americana: vi esposero artisti americani come Rauschenberg, De Kooning, Marca-Relli (con la sua prima personale a Roma),  Kline e  Twombly (entrambi con la loro prima personale in Europa), ai quali negli anni ‘60 si sarebbero aggiunti anche Sam Francis o Andy Warhol.                                                                                                                   Gli anni ‘60 si aprirono con l’esordio di Kounellis, con la sua prima personale assoluta, nel giugno 1960, e continuarono con Schifano, Giosetta Fioroni, Castellani, Manzoni, Angeli, Festa, Ceroli (con la sua prima personale assoluta nel ‘64) e Pascali (con la sua prima personale assoluta nel ’65). Nel 1963 la galleria si trasferì in Piazza del Popolo, e in quell’anno si ebbero qui anche le prime apparizioni di Lombardo, Mambor, Tacchi. Anche Eliseo Mattiacci tenne alla Tartaruga, nel 1967, la sua prima mostra personale. La GalleriaLa Tartaruga, era diventata in breve tempo uno dei punti cruciali dell’arte nella “dolce vita” romana. La frequentava anche Duchamp, e vi si potevano incontrare grandi intellettuali e scrittori come Giuseppe Ungaretti, Nanni Balestrini (che vi tenne una mostra di poesia visuale), Tristan Tzara, Alberto Moravia e Sandro Penna.                                                                                                                               Agli inizi del 1968 De Martiis ha ancora un’idea geniale: il “Teatro delle Mostre – Festival – Una mostra ogni giorno. Dalle 16 alle 20”. L’evento  prefigura la chiusura della galleria, ma di fatto diventa leggenda.  Il progetto trasformò la galleria in un laboratorio permanente, in una quotidiana occasione di incontro fra gli artisti, i critici, gli intellettuali che, con la loro assiduità di frequentazione, costituivano l’anima della Galleria e la forza propulsiva contemporaneamente del suo sviluppo e della più avanzata ricerca artistica romana. L’idea di una manifestazione così congegnata era emersa a fronte della qualità più accentuatamente effimera che la produzione artistica stava assumendo in quella fase, tale da richiedere un diverso modello di esposizione e di rapporto con l’opera. Era la ricerca di un modo espositivo che assecondasse la nuova provvisorietà e transitorietà dell’arte.                                                                                                                          La prima fase della Tartaruga si chiuse nel 1969, lasciando una traccia indelebile nell’arte contemporanea italiana e internazionale. Una delle ultime esposizioni fu un’importante mostra di Giulio Paolini (maggio 1969). La galleria riaprì nel 1970 nella nuova sede di Via Principessa Clotilde. Per tutti gli anni ‘70 continuò ad essere un insostituibile laboratorio d’arte, una fucina di sperimentazione in cui esposero per la prima volta le loro opere artisti come Spalletti, Parmiggiani, Agnetti, nonché una vetrina importante per le ricerche della poesia visuale di quegli anni. Alla fine degli anni ’70, De Martiis dà la sua interpretazione della “rinascita della pittura” che va delineandosi in quel periodo. Dopo un’ennesima chiusura, la galleria riapre infatti, in Piazza Mignanelli, con un piccolo gruppo di pittori “Anacronisti” (Piruca, Ligas, Di Stasio, Bulzatti, Gandolfi…), che dipingono a olio su tela: una pittura figurativa e “antica”. Ma ormai l’energia più potente e guizzante si è esaurita: De Martis continuerà a organizzare mostre in galleria fino a metà degli anni ’80, mostre anche belle e importanti, ma prevalentemente “di repertorio”, utilizzando spesso materiali d’archivio, in particolar modo le splendide fotografie che lui aveva sempre continuato a scattare, durante il suo percorso di grande gallerista di arte contemporanea.                                                                                                                              

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SCHEDA TECNICA

 

Mostra: ARTISTI  ITALIANI  DELLA  TARTARUGA –  Nel  Decennale della scomparsa di Plinio De Martiis

A cura di: Silvia Pegoraro                                                                                                                                                      

Sede: Galleria d’Arte Marchetti                                                                                                                                      

Indirizzo: Via Margutta 8 –  00187 Roma                                                                            

Inaugurazione: giovedì 2 ottobre 2014, ore 18.30                                                                                

Periodo espositivo: 2 ottobre – 22 novembre  2014                                                        

Ingresso: libero                                                                                                                                                                  

Orari: LU 16.30-19.30 ; MAR-SA  10.30-13.00 / 16.30-19.30                                                                       

Catalogo : Grafiche Turato Edizioni                                                                                                                

Informazioni: tel/fax 06 3204863 – www.artemarchetti.it ; [email protected]

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L’IRONIA VISIONARIA DI MINO MACCARI: UNA MOSTRA ALLA GALLERIA MARCHETTI DI ROMA NEL 25° DELLA MORTE

Giovedì 10 aprile 2014 alle ore 18.30, presso la sede della Galleria Marchetti di Roma, Via Margutta 8, verrà inaugurata la mostra MINO MACCARI – L’IRONIA VISIONARIA DI UN “INSIDIOSO PENNELLO” , aperta fino al 31 maggio 2014, realizzata con la collaborazione dell’Archivio Mino Maccari.
L’ esposizione – a 25 anni dalla morte dell’artista – mette in evidenza, attraverso una trentina di dipinti – dal 1954 al 1984 – l’ironia visionaria e la verve fantastica proprie del “realismo espressionista” della pittura di Maccari, meno conosciuta rispetto alla sua produzione grafica.
Nel catalogo, edito da Grafiche Turato Edizioni, a cura di Silvia Pegoraro, oltre al testo introduttivo della curatrice, scritti di Lorenza Trucchi e di Andrea Tugnoli.
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Il giudizio sull’opera pittorica e grafica di Mino Maccari è in genere legato, dato il suo peso di scrittore e polemista, a quello sulla sua personalità letteraria. In effetti gli spiriti della rivista “Il Selvaggio” (da lui diretta dal ’26 al ’43), confluiti nel movimento “Strapaese” – che fa del regionalismo e del provincialismo un’arma contro l’esterofilia e soprattutto contro l’accademismo – passano sen’altro nella sua ricerca artistica. In realtà la cultura di Maccari è profondamente europea: non è un caso che nella piccola Galleria del Selvaggio, aperta a Firenze nel 1927, oltre agli artisti che gravitano attorno al giornale (Soffici, Morandi, Rosai, Bartolini ecc.), Maccari faccia esporre le opere di molti artisti stranieri con cui dialoga e dialogherà in vario modo: da Goya a Ensor, da Grosz a Kokoschka. La sua personalità “letteraria”, legata all’espressione e alla comunicazione verbale, è dunque profondamente immersa nella grande arte visiva occidentale, e questa considerazione allontana il rischio di essere portati a sottovalutare l’autorità e l’autonomia estetica di una pittura che vive assolutamente di luce propria, sia per l’originalità della concezione che per la sapienza tecnica, e che è fatta di ironia spumeggiante e di un profluvio di segni caricaturali, ma anche di poesia lirica e malinconica, di incantato abbandono, di visioni fantastiche e di atmosfere surreali, come dimostrano alcune opere esposte alla Galleria Marchetti di Roma a 25 anni dalla morte dell’artista (1989-2014) : si veda la trasposizione ludica e fiabesca del tema “militarista” della parata in quel mirabolante gioco d’artificio cromatico che è appunto La parata (1959) o lo splendido Cinque figure, degli anni ’60, capolavoro plastico e coloristico, dalle tonalità ardenti e grevi. Se, da una parte, s’interroga continuamente sulla funzione dell’intellettuale e intende l’arte anche come mezzo di civile intervento, di riflessione e di presa di coscienza, e dunque il suo impulso creativo tende a configurarsi come impulso a “fissare” una realtà di pensiero, dall’altra si percepisce in lui una gioia quasi fisica di vivere questo impulso come immersione nella danza metamorfica e dissolvente delle forme. Maccari è infatti ciò che Baudelaire avrebbe definito “un grand coloriste”: il suo colore va verso una febbrile intensità, una potente suggestione onirica; le figure emergono da una costellazione di pure note timbriche, che vibrano in armonia o in dissonanza, sino ai lavori degli anni più recenti, in cui la resa cromatica della luce in rapporto ai volumi delle figure è il prodotto di un’originale simbiosi tra “empatia” e “astrazione” . Federico Zeri, che attribuisce a Maccari un’“eccezionale lucidità d’occhio e di mano”, e parla di straordinaria “acutezza mentale e percettiva di questo inesauribile esploratore visivo”, afferma però che “la sua pittura resta in sottordine rispetto all’incessante, perenne stimolo che agita e sorregge la sua produzione disegnativa” . Maccari applica in realtà alla pittura l’immediatezza della realtà schizzata nel disegno : essa manifesta, e letteralmente sprizza da ogni pennellata, la forza espressiva e comunicativa, la pregnanza, la chiarezza tipica del suo talento di disegnatore, eppure, nello stesso tempo, va molto aldilà, per inoltrarsi in territori più vasti e complessi. Il pittore toscano sembra potersi inscrivere nel novero di quei “realisti visionari” che, come scrive Henri Focillon nella sua Estetica dei visionari, formano un ordine a parte, e le cui opere introducono nella nostra concezione dell’universo qualcosa d’improvviso e di vago, d’inquietante e d’ indefinibile. Il problema del realismo si presenta al pittore tra il ’19 e il ’26, con la scoperta del paesaggio toscano filtrato dalle reminescenze dei Macchiaioli, della natura morta e degli interni con figure tra Cézanne e Soffici, e si ripropone via via, negli anni, ad esempio in un tema legato alla mimesis e tradizionalmente “concorrenziale” alla fotografia come quello del ritratto, che darà alla pittura di Maccari frutti pregevolissimi: si pensi ai numerosi autoritratti (come l’Autoritratto con profilo di donna o l’Autoritratto con bicchiere, entrambi del ’76), o ai ritratti dei contemporanei Vitaliano Brancati, Libero De Libero, Ottone Rosai, fino a quello – presente in questa mostra – di uno dei suoi amici più cari, che è anche uno dei suoi pochissimi veri consanguinei morali e intellettuali, ovvero il brillante, sottile, tenero, cinico Ennio Flaiano (1965-70). Si pensi, ancora, al ritratto di Erich Von Stroheim, vero mito, per Maccari, di cui l’artista fa un’icona ricorrente, quasi un simbolo misterioso, quasi un logo concettuale della sua pittura , e che si ripresenta, in questa mostra, inserito nell’opera Due coppie (1965-70). L’importanza della drammaturgia musicale, del teatro e del cinema per Maccari è giustamente stata messa in luce in un bel saggio del ’93 di Lorenza Trucchi (qui riprodotto in catalogo) che definisce l’artista un “virtuoso della messa in scena”, impegnato a regalarci un mirabolante “spettacolo multimediale in cui alle risorse specifiche del linguaggio artistico si aggiungono quelle dello spettacolo cinematografico” Qualcuno ha affermato che la scenografia teatrale rappresenta quasi un’antologia della pittura di Maccari. Infatti, negli splendidi bozzetti per la scenografia del Falstaff di Verdi realizzati nel 1970 per il Maggio Musicale fiorentino (uno dei quali, di sognante e magica eleganza, è presente in questa mostra), come in quelli precedentemente realizzati per Il Naso di Šostakovič (1964), si nota l’esigenza di una continua “frantumazione” dello spazio scenico in senso pittorico. Una delle caratteristiche più evidenti della pittura di Maccari è la ciclicità: il ricorrere, in infinite varianti, di temi e figure, di tipologie fisiche e fisiognomiche, di schemi spaziali e strutturali: ad esempio lo schema di coppia uomo/donna, spesso raddoppiato o moltiplicato (si vedano qui, ad esempio, oltre al già citato Due coppie del ’65-70, Arlecchino del ’64, Omicidio del ’65 o Coppie in campagna del ’68, fino a La cameriera del 1984). Questa ciclicità consente di affrontare il soggetto scelto secondo più punti di vista, individuandone ogni possibile sfumatura. Ciò che sembra interessare Maccari è la molteplicità delle possibilità di relazione del soggetto stesso, in cui l’artista mira a cogliere le mutazioni più intime e insieme più concrete di un racconto. A novant’anni, l’artista rivelò che i suoi veri maestri erano stati Gargantua e Pantagruel, e dunque il loro creatore, il narratore francese del ‘500 François Rabelais (1494-1553), sulle tracce del quale Maccari sembra creare una sorta di realismo grottesco, sagace e vitalistico, radicale e terragno, che contempla anche “l’eccezionale predominanza del principio materiale e corporeo” (Bachtin) propria della cultura popolare: così il corpo rappresenta per lui, nella sua topografia fisica e simbolica e nei suoi processi di trasformazione, l’espressione stessa delle mappe biologiche e culturali della vita. In questo senso la figura più ricorrente nella pittura di Maccari è anche la vera chiave di lettura della sua poetica: la figura femminile, ambigua e seducente, semplice e inesauribilmente vitale, che fronteggia eserciti di soldati e di capitani d’industria, di uomini di potere e di portaborse, di vecchi satiri azzimati, e che rappresenta l’essenza stessa della vita : spesso tragica e sempre, giorno dopo giorno, tragicamente leggera ed equivoca .

NOTA BIOGRAFICA

Mino Maccari, nato a Siena nel 1898, a diciannove anni partecipa alla Grande Guerra come ufficiale di artiglieria di campagna. Tornato a Siena nel 1920 si laurea in giurisprudenza ed inizia a lavorare presso lo studio dell’avv. Dini a Colle Val d’Elsa. Sono di questi anni i suoi primi tentativi di pittura ed incisione.
Nel 1922 partecipa alla “marcia su Roma”.
Nel 1924 viene chiamato da Angiolo Bencini a curare la stampa de “Il Selvaggio”, dove vi appaiono le sue prime incisioni; nel 1926 abbandona la professione legale e ne assume la direzione fino al 1942. Nel 1925 la redazione del “Selvaggio” si trasferisce a Firenze e tra i suoi collaboratori annovera Ardengo Soffici, Ottone Rosai e Achille Lega. Nel 1927 Maccari partecipa alla II Esposizione Internazionale dell’Incisione Moderna e alla III Esposizione del Sindacato Toscano Arti del Disegno. L’anno dopo è presente alla XVI Biennale di Venezia. Nel 1929 “Il Selvaggio” si trasferisce a Siena e Maccari espone delle puntesecche alla II Mostra del Novecento Italiano a Milano. Agli inizi degli anni Trenta è capo redattore della “Stampa” di Torino, accanto al direttore Malaparte. Nel 1931 partecipa alla I° Quadriennale di Roma (dove sarà ancora nel 1951 e nel 1955). Nel 1932 “Il Selvaggio” si trasferisce a Roma. Nel 1938 viene invitato alla XXI Biennale di Venezia con una sala personale, collabora ad “Omnibus” di Longanesi e tiene una mostra personale all’Arcobaleno di Venezia. Nel 1943 espone ad una personale a Palazzo Massimo in Roma e alla Mostra Dux al Cinquale di Montignoso. Nel 1948 è di nuovo alla Biennale di Venezia dove gli viene assegnato il premio internazionale per l’incisione (vi sarà anche nel 1950, 1952, 1960, 1962). Alla fine degli anni Quaranta inizia la sua collaborazione alla rivista liberale “Il Mondo”, diretta da Pannunzio, conclusasi nel 1963. Nel 1955 è alla Biennale di San Paolo (Brasile). Nel 1962 gli viene affidata la presidenza dell’Accademia di San Luca. Quindi nel 1963 tiene una mostra personale a New York alla Gallery 63 e nel 1967 partecipa alla “Mostra d’Arte Moderna in Italia 1915-1935”, tenuta a Firenze a Palazzo Strozzi. Seguono una serie di mostre personali ed esposizioni internazionali di grafica, tra cui quella del 1977 a Siena, dove gli viene dedicata una personale a Palazzo Pubblico. Muore nel 1989 a Roma.

SCHEDA TECNICA

Mostra: MINO MACCARI – L’IRONIA VISIONARIA DI UN “INSIDIOSO PENNELLO”
A cura di: Silvia Pegoraro
Sede: Galleria d’Arte Marchetti
Indirizzo: Via Margutta 8 – 00187 Roma
Inaugurazione: giovedì 10 aprile 2014, ore 18.30
Periodo espositivo: 10 aprile – 31 maggio 2014
Ingresso: libero
Orari: LU 16.30-19.30 ; MAR-SA 10.30-13.00 / 16.30-19.30
Catalogo : Grafiche Turato Edizioni, con testi di Silvia Pegoraro, Lorenza Trucchi, Andrea Tugnoli
Informazioni: tel/fax 06 3204863 – www.artemarchetti.it ; [email protected]

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21 ARTISTI CONTEMPORANEI PER UNA MOSTRA ALLA GALLERIA MARCHETTI DI ROMA : “ICONE DELL’INVISIBILE”

Giovedì 14 novembre 2013 alle ore 18.30, nella prestigiosa sede della Galleria d’Arte Marchetti di Roma, Via Margutta 8, verrà inaugurata la mostra
ICONE DELL’INVISIBILE – 21 volti dell’astrazione nell’arte italiana contemporanea (a cura di Silvia Pegoraro), aperta fino al 14 dicembre 2013.
Saranno esposte opere di Carla Accardi, Gianni Asdrubali, Nanni Balestrini, Luigi Boille, Nicola Carrino, Alfredo Celli, Luciano De Liberato, Alberto Di Fabio, Sidival Fila, Licia Galizia, Giorgio Galli, Edoardo Landi, Sergio Lombardo, Carlo Lorenzetti, Teodosio Magnoni, Renato Mambor, Gianfranco Notargiacomo, Achille Perilli, Serj, Mauro Staccioli, Antonella Zazzera.
L’esposizione sarà documentata dal volumetto n. 3 della collana “I Quaderni della Galleria” (Edizioni Grafiche Turato).

Informazioni: tel/fax 06 3204863 – www.artemarchetti.it ; [email protected]

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Che cos’è esattamente il contemporaneo? Contemporaneo può essere aggettivo o sostantivo, un periodo storico o una nozione filosofica. Tuttavia, il problema che si pone, nel momento in cui si cerca di capire cosa sia il contemporaneo in arte, è: contemporaneo rispetto a cosa? Esiste un solo tempo, quello cronologico, tempo che scorre in modo uniforme dal passato verso il futuro, nastro lineare e monodirezionale, come il linguaggio verbale? O invece esistono più tempi, fratture temporali e cesure profonde, come Walter Benjamin, ma anche gli astrofisici, ci dicono da tanti decenni? Gli artisti presenti in questa mostra ci dicono a loro volta che il “contemporaneo”, soprattutto, non coincide con l“attuale”, con “ciò che è in atto”, ma esprime una potenzialità, qualcosa che può essere, qualcosa che è rivolto verso il futuro (“L’arte non esiste ancora: è solo agli inizi”, come affermava Constantin Brâncuşi), e nello stesso tempo può recuperare istanze del passato, come dimostra l’attrazione che l’arte e la letteratura del Novecento hanno provato per l’arcaico, per il primitivo. Per l’arte contemporanea, dunque, risolvere il problema del tempo significa cercare e trovare un tempo che non è il proprio, mentre l’attuale si realizza tutto nel tempo presente, perché è già in atto. Il contemporaneo è dunque l’inattuale, per dirla con Nietzsche (Considerazioni inattuali 1873-1876), vive in una sconnessione e in una sfasatura. Dunque, chi coincide troppo col proprio tempo – con l’attualità – non è veramente contemporaneo. Come afferma Giorgio Agamben, il tempo del contemporaneo è necessariamente discontinuo: l’artista contemporaneo atomizza e manipola il proprio tempo, lo mette in relazione con altri tempi, scava nel passato per giungere nel futuro.
Su una linea di ricerca di questo genere si collocano gli artisti qui presenti, compulsando in modo affascinante e significativo i vari registri dell’astrazione.
Con l’astrazione, in arte, si è attuata nel Novecento una rottura radicale nei confronti del codice naturalistico plurisecolare della tradizione figurativa occidentale: ciò che conta, qui, non è tanto la caduta dei riferimenti al mondo esterno, quanto il fatto che le regole del linguaggio visivo si fondino su elementi interni alla forma. Ma le vie per arrivare a questo sono molteplici, anche se possono forse ricondursi a due direzioni fondamentali: una espressivo-simbolica, che presta la massima attenzione agli aspetti emotivo-psicologici del colore e al ritmo prodotto dai rapporti di forze in atto nel campo visivo, e che nasce con Kandinskij e Klee, ed una matematico-razionale, tendente alla massima rarefazione della forma individuata nella pura astrazione geometrica, che trova la sua prima espressione nell’arte moderna con Mondrian e Malevič. Alcune delle espressioni artistiche che ritroviamo in questa mostra sono allora riconducibili a un’astrazione di gesto, segno o materia, altre a un’astrazione di tipo geometrico. Altre ancora tendono a una felice combinazione-passaggio tra le due tendenze. In ogni caso, il rifiuto di ridurre l’immagine a rappresentazione figurativa, vale a dire referenziale e visibile, può configurarsi, implicitamente, come un richiamo alle idee che gli antichi Padri della Chiesa avevano formulato riguardo al problema dell’icona, all’epoca della disputa tra iconoduli e iconoclasti. Si trattava, certo, di una teologia dell’immagine che non aveva niente a che vedere con un qualche programma artistico, dal momento che era allora ignota la nozione moderna di “opera d’arte”, eppure manifestava l’esigenza di qualcosa che, pur essendo altro dal visibile, si rivelasse tuttavia nel visibile stesso.
In questa prospettiva intende porsi la mostra ICONE DELL’INVISIBILE , nel realizzare la quale la Galleria Marchetti si è in gran parte ispirata al lavoro sull’astrazione svolto quest’anno dalla Mostra del XLVI Premio Vasto d’Arte Contemporanea: Oltre l’immagine – Le molte anime dell’astrazione nell’arte italiana (la maggioranza degli artisti presenti figuravano nell’edizione 2013 dello storico Premio, che dal 1959 Roberto Bontempo organizza nella splendida cittadina dell’Adriatico abruzzese) .
L’esposizione assume così un profilo insieme storico e di ricerca, focalizzando l’attenzione dell’osservatore su alcuni artisti – tutti viventi e operativi – del contesto italiano contemporaneo, con opere dagli anni ’50 ad oggi: percorsi tutti riconducibili alla via articolata e multiforme all’astrazione, che mettono in evidenza il perdurare della vitalità di questo linguaggio artistico.

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UNA GRANDE MOSTRA DI UGO ATTARDI A LATINA: “IL VIAGGIO DI ULISSE”

Sabato 16 giugno 2012 alle ore 18, inaugura presso l’Ex Garage Ruspi a Latina la mostra UGO ATTARDI. IL VIAGGIO DI ULISSE ( a cura di Silvia Pegoraro e Carlo Ciccarelli), che sarà visitabile sino al 29 luglio 2012: 65 opere tra dipinti, sculture e disegni, tutte provenienti dall’Archivio Storico Ugo Attardi di Roma.
Alquanto interessante la sede espositiva: una grande e luminosissima autorimessa per autobus degli anni Trenta, recentemente restaurata e riqualificata dal Comune di Latina.
L’evento – che rientra nelle Manifestazioni per l’80° Anniversario della Fondazione della città di Latina – è promosso dal Consiglio Regionale del Lazio, dal Comune di Latina e dallo stesso Archivio Storico Ugo Attardi (di cui è procuratore Carlo Ciccarelli e del cui consiglio direttivo fa parte Andrea Attardi, figlio dell’artista). L’organizzazione è affidata a Ulisse Gallery Contemporary Art e all’Associazione Orizzonti Culturali di Roma.
Catalogo SILVANA EDITORIALE, con testi, oltre che dei curatori, di Andrea Attardi e dello stesso Ugo Attardi .

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Ugo Attardi (1923-2006), pittore e scultore di fama internazionale, è stato uno dei più validi e poliedrici artisti italiani del Novecento, legato a un concetto di arte come “viaggio” e ricerca interminabile . Di qui anche la sua passione per il mito, e in particolare per il mito di Ulisse, personaggio animato da un’inestinguibile sete di conoscenza e di scoperta, inquieto e tormentato come fu lo stesso Attardi.
Come scrive Carlo Ciccarelli, procuratore dell’Archivio Storico Ugo Attardi e co-curatore della mostra: “L’aspetto più importante del lascito umano ed artistico di Ugo Attardi, per chi l’abbia conosciuto, è la solida voglia di vivere che ha animato la sua vita e che traspira dalle sue opere; una voglia inevitabilmente percorsa da angosce, frutto, molto spesso, del desiderio di vincere la volgarità dei soprusi”.
Ugo Attardi è fra gli artisti contemporanei che meglio hanno saputo appropriarsi del mito attraverso le immagini, creando un eccezionale trait-d’union tra il mito stesso, il mondo dell’ignoto, del sogno e della magia, della grandezza e dell’orrore, e la realtà cruda e prosaica, spesso misera, altrettanto piena di orrore, ma non di grandezza, della contemporaneità. In essa Attardi è riuscito a svelare, proprio tramite la presenza del mito – soprattutto quello di Ulisse, che sempre lo ha particolarmente affascinato – il meraviglioso mistero che comunque, in quanto vita, presenza, carnalità e pensiero, la anima. Il mito è immagine, è figura che senza posa si agita nella mente e nell’immaginario dell’uomo, e che s’incarna nelle immagini – nelle figure – create dall’arte: per questo ad Attardi non è bastata più la ricerca astrattista, alla quale si era dedicato come co-fondatore del gruppo Forma 1 (1947) e si è sentito irresistibilmente attratto verso la figurazione :
“Ho una visione delle cose del mondo possessiva e carnale, e non riuscivo a inverarla in atti e immagini di pura astrazione: sentivo la mancanza della sottile magia della finzione, la finzione propria della figurazione”. Un percorso, un viaggio, tormentato e affascinante, quello di Attardi, che questa mostra vuole documentare.
Il suo stile si potrebbe definire, con espressione ossimorica, ma proprio per questo carica di promesse e contraddizioni, realismo visionario: un’arte che certo non cancella i fantasmi del reale, l’eterna ossessione della referenzialità, e dell’illusione ottica, ma li immerge nel magma vibrante e inarginabile dell’immaginario individuale, di una visione che è sguardo rivolto al reale, ma è sempre anche sogno, immaginazione, allucinazione, luce calda e trasfigurante, o fredda e tagliente, comunque irreale, colore e materia scultorea sontuosi, sensuali, inquietanti.
La trasfigurazione onirica del dato sensibile è potente e sorprendente, e in certi lavori il pittore-scultore Attardi sembra “scorticare” le figure, in un empito che va addirittura oltre l’istanza espressionista, ricostruendone un involucro vivo e bruciante di colori incandescenti e di forme nervose e guizzanti, un fastoso miraggio.
Attardi stupisce e disturba, persuade e violenta, grazie alla sua potente retorica visiva. Chiama in gioco meraviglia, seduzione, provocazione: processi psicologici che violano il canone classico – pur così presente alla sua visione “mitologica” – per immergerlo nell’aura fosca di una grande estetica “barocca”. Essa va a contaminare, gioiosamente o dolorosamente, comunque sempre vitalisticamente, in una sintesi originale, i suoi soggetti “classici”: prima di tutto il corpo umano. Infatti i corpi dipinti sin dalla sua prima fase figurativa (dopo quella astratta di Forma 1) esprimono una sorta di immensa “nostalgia” per la scultura, di desiderio indomabile per la corporeità tangibile della terza dimensione. Un desiderio approdato infatti, nel 1967, alla realizzazione di opere scultoree : tra il ’69 e il ’71 lavora al grandioso Arrivo di Pizarro; degli anni ’70 sono altri monumentali gruppi scultorei in legno, come quelli del ciclo Cortés e la bellezza dell’Occidente (1974-76) o Il ritorno di Cristóbal Colón (ca.1974-1980).
Incise con una precisione ossessiva e acuminata, le figure scolpite da Attardi sprigionano un “perturbante” (unheimlich…) senso di ansia e di angoscia. Con il passar del tempo, tuttavia, le loro forme febbrili vanno placandosi in una compagine più tradizionalmente “classica”, per quanto sempre tesa e vibrante, che sembra voler essere la misura ideale dei personaggi della mitologia e della letteratura classica che esse rappresentano, come il monumentale Ulisse del 1996, o l’Enea del 2003 (tra le ultime opere dell’artista).
Ma è il corpo femminile quello che in Attardi più colpisce e con più efficacia rappresenta la sua cifra espressiva e il paradigma della sua poetica. Dominanti, maestose e regali, feline e inquietanti, aggressive e languide – dalla Circe delle opere ispirate all’Odissea alle danzatrici delle Milonghe argentine, dall’altera e minacciosa Donna Cantante scolpita nel 1984, alla “regina” del quadro Mendicante implora Regina africana (1993) – le donne di Attardi incarnano la matrice stessa del mito originario, la sintesi tra il dolore e l’amore, tra la vita e la morte, tra il bello e l’osceno.

NOTA BIOGRAFICA

UGO ATTARDI (Sori, Genova, 1923 – Roma, 2006)
Nato presso Genova da genitori siciliani, all’età di un anno si trasferisce con loro a Palermo, dove il regime fascista li costringe a tornare, a causa dell’attività sindacale del padre. Fondamentale nel suo percorso d’artista l’approdo a Roma, nel 1945, dove frequenta lo studio di Guttuso, e già nel 1947 entra nel vivo del dibattito artistico partecipando (insieme ad Accardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli, Sanfilippo e Turcato) alla fondazione di “Forma 1”, il primo gruppo astrattista italiano del secondo dopoguerra. Poco dopo avverte però un rinnovato impulso verso la figurazione, sia pure visionaria e problematica, e si allontana definitivamente dall’esperienza astratta, senza tuttavia dimenticarne alcune conquiste formali: dà vita a una personale poetica “classico-espressionista”, fondata su una drammatica compresenza degli opposti: bellezza “classica” e deformità, tenerezza e violenza, fisicità e onirismo.
A partire dagli anni Cinquanta partecipa più volte alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma, e tiene grandi mostre personali nei più importanti spazi espositivi italiani. Nel 1961 aderisce al gruppo “Il Pro e il Contro”, accanto a Calabria, Farulli, Gianquinto, Guccione e Vespignani.
Scrive il romanzo L’erede selvaggio, pubblicato nel 1970, e per il quale ottiene nel 1971 il Premio Viareggio per la narrativa.
Nel 1967 avvia una fervida attività di scultore e nascono, dopo L’ Addio Che Guevara del 1968, alcuni gruppi lignei tra cui L’Arrivo di Pizarro del 1969-71, e bronzi improntati a forte sensualità.
Sue sculture monumentali sono collocate nelle principali capitali europee e mondiali. Fra di esse Il Vascello della Rivoluzione (1988), a Roma, presso il Palazzo dello Sport; Nelle Americhe, del 1992, a Buenos Aires; il celebre Ulisse, del 1996, a New York; Enea (2004), presso il porto della Valletta (Malta). Il grande Cristo del 2002 è entrato a far parte delle collezioni dei Musei Vaticani.
Nel 2006 l’artista riceve dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi il titolo di Grand’Ufficiale della Repubblica, per i suoi meriti artistici e per aver saputo diffondere e valorizzare in tutto il mondo il genio e la creatività italiani.
Muore a Roma il 21 luglio dello stesso anno.

SCHEDA TECNICA

Mostra: UGO ATTARDI. IL VIAGGIO DI ULISSE
A cura di: Silvia Pegoraro, Carlo Ciccarelli
Sede: Ex Garage Ruspi, Largo Giovanni XXIII, Latina
Periodo espositivo: 16 giugno – 29 luglio 2012
Inaugurazione: sabato 16 giugno 2012, ore 18.00
Orari: 10.00-13.00 ; 16.00-20.00
Ingresso: libero
Informazioni: Organizzazione Ulisse Gallery Contemporary Art (Via dei Due Macelli, 82 – Roma), Tel. +39.0669380596 ; Fax. +39.06.6780771 ; Email [email protected] ; Sito: www.ulissegallery.com
Catalogo: Silvana Editoriale

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Luigi Boille – La pittura più pura possibile – Opere 1952-2012

La Galleria d’Arte Marchetti di Roma inaugura giovedì 12 aprile 2012 una mostra di Luigi Boille, uno dei maestri storici della pittura astratto-informale europea, il cui lavoro la galleria segue da anni: un essenziale percorso antologico – dal 1952 ad oggi – attraverso 60 anni di ricerca pittorica sempre originale e stimolante, ma anche fedele a una cifra stilistica ben precisa ed inconfondibile. Come scriveva Giulio Carlo Argan, nel 1973: “Boille, sapendo che la pittura è in crisi, si ostina a fare soltanto pittura, la pittura più pura possibile”.
In occasione della mostra verrà presentata una monografia (a cura di Silvia Pegoraro, coordinamento e apparati di Nicole Calendreau Boille) che documenterà tutto il percorso artistico di Boille, attraverso una sessantina di opere fra le più significative. Oltre il testo della curatrice, la pubblicazione (bilingue italiano/inglese) conterrà un’antologia critica con testi di Giulio Carlo Argan, Guido Ballo, Enrico Crispolti, Tullio De Mauro, Flaminio Gualdoni, Murilo Mendes, Filiberto Menna, Pierre Restany, Michel Tapié, Cesare Vivaldi .

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La mostra alla Galleria Marchetti traccia un percorso essenziale e significativo nel lavoro di Luigi Boille : una scelta di opere che scandiscono le tappe della sua avventura creativa dal 1952 – in pieno periodo informale – fino alla più recente fase espressiva, ancora in progress, e ben rappresentano le variazioni stilistiche del lavoro del maestro, che si muove dall’informale verso una poetica sempre più personale, in cui il caos delle pulsioni espressive va sempre più strutturandosi in armoniose composizioni spaziali. La monografia che accompagna la mostra rende conto di tutto questo percorso attraverso una sessantina di opere rappresentative di questo intero percorso artistico.
Nel 1964, si tenne a New York un’importante rassegna artistica internazionale, il Guggenheim International Award . A rappresentare l’Italia c’erano quattro artisti: Lucio Fontana, Giuseppe Capogrossi, Enrico Castellani e Luigi Boille, giovane artista di origine friulana che risiedeva già dal 1950 a Parigi, dove si era avvicinato alla Jeune Ecole de Paris, e dove aveva trovato il successo. A tutt’oggi la sua fama è assai più consolidata in Europa e nel mondo che in Italia, nonostante l’eccezionale qualità del suo lavoro e la sua inconfondibile cifra stilistica lo pongano al livello dei maggiori maestri italiani del secondo Novecento.
Boille raggiunge già all’inizio degli anni ’50 una maturità creativa che lo porta a realizzare un’espressione pittorica nella quale è possibile ravvisare una delle più valide, stimolanti e originali manifestazioni dell’Informale. Forse perché, come scrive il grande critico francese Pierre Restany nel 1959 , “A differenza di coloro che traggono soddisfazione da certezze momentanee, egli non è mai rassicurato dalla sua pittura. Essa lo inquieta, lo angoscia, lo fa disperare. Egli cerca attraverso ciascuna tela i possibili passaggi, gli sbocchi verso nuove situazioni.” Una frase che può essere eletta a emblema di tutto il percorso artistico di Boille, sino ad oggi: una ricerca instancabile, mossa da inesauribile curiosità e suggestione. Tutto questo colpì immediatamente anche un altro celebre critico, Michel Tapié, leggendario teorico dell’Informale come “Art autre”, che lo inserì nel gruppo dei suoi artisti prediletti, e paragonò il suo lavoro a quello di grandi espressionisti astratti americani quali Mark Tobey e Clifford Still. Altri grandi critici, fra i più influenti della storia dell’arte del Novecento, hanno nel tempo sostenuto e amato Luigi Boille (come risulta ben evidente anche dall’antologia critica presente nella monografia che accompagna la mostra) : Lionello Venturi, Guido Ballo, Cesare Vivaldi, Filiberto Menna, Giulio Carlo Argan… Proprio a quest’ultimo si deve un’altra affermazione-chiave per intendere l’opera del maestro friulano: “Boille, sapendo che la pittura è in crisi, si ostina a fare soltanto pittura, la pittura più pura possibile” (G.C. Argan, 1973). Pittura pura, pittura assoluta, quella di Boille, che sin dai suoi esordi, fino alle più attuali ricerche, si snoda in un labirinto infinito di colore e di luce, metafora del pulsare stesso dell’esistenza negli abissi del cosmo. Pittura ricca di “elementi barocchi” (Tapié), anche se nel lavoro di Boille il dinamismo e l’”irrazionalismo” riconducibili al barocco saranno sempre equilibrati da un senso “classico” di armonia e di nitore formale. Un lavoro sempre serrato e rigoroso, il suo, sia pure sempre aperto alle infinite suggestioni dell’immaginario. Un lavoro che si caratterizza per l’evoluzione verso una sintesi sempre più perfetta tra segno, gesto e colore, tra pensiero ed emozionalità. Da quelle che Restany definisce le “hautes pâtes” informali di Boille (anni ’50), dalla disseminazione della materia-colore e dei segni, o dal loro assemblarsi fittamente nello spazio, in una sorta di horror vacui (anni ’60 -’70), Boille si è mosso sempre di più verso la rarefazione, il libero fluttuare del segno nel colore, o nel bianco, o nel nero, senza tuttavia perdere mai la sua straordinaria ricchezza pittorica. Il segno, in Luigi Boille, è l’elemento di coesione tra pensiero e gesto, tra spazio e colore, e attraverso l’interazione di tutte queste componenti l’artista difende il ruolo centrale ed essenziale del linguaggio della pittura, come scriveva Argan nel 1973: il segno di Boille “svolgendosi e modulandosi come pura frase pittorica, realizza e comunica uno stato dell’essere, di immunità o distacco o contemplazione”, riuscendo davvero a realizzare quella “riconciliazione dell’intelligenza con il puro istinto” prefigurata da Restany nel ’58. La stessa che percepiamo anche nelle opere più recenti, come il Dittico-Zen del 2011, presentato al Padiglione Italia della LIV Biennale di Venezia, dove l’artista è tornato dopo molti anni : aveva già partecipato all’edizione del 1966, con splendide opere presentate da Cesare Vivaldi e dal poeta Murilo Mendes. Tullio De Mauro, il grande linguista che lo presenta nel catalogo di quest’ultima edizione della Biennale, traccia sinteticamente un affascinante profilo della ricerca di Boille: una “ricerca continua di risultati che a me paiono suggestive e splendenti testimonianze della sua vivida capacità di catturare nel segno pittorico l’emergere di luce, ‘fiocchi di luce’, dal buio del cosmo”. Definizione tanto acuta quanto poetica, che rinvia dunque anche al Boille amante della poesia e dei poeti. Poeti come Ezra Pound, con cui collaborò alla realizzazione di un libro d’artista con sette poesie di Pound e sette litografie di Boille (Omaggio a Ezra Pound, Rapallo, 1971). Poeti come René Char: in due suoi versi – ci ricorda De Mauro – Boille ha riconosciuto il senso di tutta la sua pittura: “Si nous habitons un éclair, / il est le coeur de l’éternel”.

Nota biografica

Nato a Pordenone nel 1926, Luigi Boille si diploma all’Accademia di Belle Arti di Roma nel ’49. L’anno successivo si laurea in architettura, e subito dopo si trasferisce a Parigi, dove si stabilisce. Già nel ’53 la sua pittura rivela una matura e originale assimilazione dell’Informale, e ciò lo avvicina al gruppo della Jeune Ecole de Paris, con cui espone in numerose collettive.
Conosce il grande critico francese Michel Tapié, che lo inserisce nella sue ricerche sull’”Art autre” e coglie nella sua pittura “elementi barocchi”, anche se nel lavoro di Boille il dinamismo e l’”irrazionalismo” riconducibile al barocco saranno sempre equilibrati da un senso “classico” di misura e di rigore formale.
Nel 1964 Luigi Boille rappresenta l’Italia insieme a Capogrossi, Castellani e Fontana al Guggenheim International Award di New York. Nel ’65, rientrato temporaneamente in Italia, a Roma partecipa alla Quadriennale, e l’anno dopo è invitato alla Biennale di Venezia, dove è recentemente tornato, partecipando alla LIV Edizione (2011).
Per quindici anni è stato in rapporti contrattuali con la Galleria Stadler di Parigi (una fra le più importanti al mondo), dove ha tenuto diverse mostre. Importante anche il rapporto con la storica Galleria del Naviglio di Milano e con il suo fondatore e titolare, Carlo Cardazzo.
Ininterrotto è l’itinerario delle sue mostre personali e collettive. Tra le più importanti, le personali alla Galleria del Naviglio (Milano) e alla Galleria Qui Arte Contemporanea (Roma), nel 1974, a Palazzo dei Diamanti di Ferrara (1984), alla Galleria Giulia di Roma (1986), alla Galleria Roubaud (1991) e all’Istituto Italiano di Cultura a Monaco di Baviera (1992), alla Galleria L’Isola (Roma) nel 1993, allo Studio Simonis e alla Galleria Stadler (Parigi) nel 1997; le collettive Informale in Italia, alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna (1983) , Geografie oltre l’Informale alla Permanente di Milano (1987) , Tapié et l’art informel , alla Galerie 16 di Parigi (1989).
Prima di questa, la Galleria Marchetti di Roma gli ha dedicato altre cinque mostre personali, tra il 1999 e il 2009.
Opere di Boille sono presenti nelle maggiori collezioni e musei del mondo.

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SCHEDA TECNICA

Mostra: LUIGI BOILLE – “La pittura più pura possibile” – Opere 1952-2012
A cura di: Silvia Pegoraro
Sede: Galleria d’Arte Marchetti
Indirizzo: Via Margutta 18/ A – 00187 Roma
Inaugurazione: giovedì 12 aprile 2012, ore 18.30
Periodo espositivo: 12 aprile 2012 – 19 maggio 2012
Ingresso: libero
Orari: LU 16.00-19.30 ; MAR-SA 10.30-13.00 / 16.30-19.30 (chiuso i giorni festivi)
Informazioni: tel/fax 06 3204863 – www.artemarchetti.it ; [email protected]
Catalogo: in galleria, monografia Edizioni Grafiche Turato, a cura di Silvia Pegoraro, coordinamento e apparati di Nicole Calendreau Boille.

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