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AntoniettaMasina

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recensione: 17 A MEZZANOTTE

“Il modello di riferimento è l’americano The ABC’s of Death, in cui per ogni lettera dell’alfabeto viene descritto un modo di morire. Eliminando l’eccessiva prolissità del suddetto, 17 a mezzanotte risulta secondo chi scrive decisamente più riuscito”Nonsologore

“ONLINE IL PRIMO SPETTACOLARE TRAILER DELL’HORROR ANTOLOGICO 17 A MEZZANOTTE”  Splattercontainer

“Il cinema di Genere italiano sta vivendo una vera e propria rinascita non tanto grazie all’uscita di nuovo materiale audiovisivo [in sala o su supporto DVD, Blu-Ray etc] ma in quanto gli addetti ai lavori che ne abitano il sottobosco continuano a dimostrarsi capaci di creare una vera e propria rete di collaborazioni.”Ingenerecinema

“Tra stupri e fantasmi nell’ascensore, indiani zombie, omaggi a Cronenberg, al cinema apocalittico e allo splatter, si dipana la matassa di 17 incubi notturni spaventosi e folli. L’orrore accade 17 minuti prima di mezzanotte, in 17 rintocchi di puro terrore.”MYMOVIES

“A fine visione si resta soddisfatti.” Darkveins


Vorrei dare la mia opinione sul film, se così si può chiamare questa emblematica mescolanza di disperati tentativi di emulazione cinematografica… ma non posso non fare prima considerazioni su una certa stampa online che lo accompagna. Se son arrivata (da appassionata di horror e fantastico che sono) a conoscere di questo progetto, è grazie alle entusiastiche presentazioni che ho letto in giro. Ora, mi chiedo: se le scrivono da soli gli autori sotto pseudonimo, o han davvero così tanti amici? Perché davvero non mi spiego come sia possibile arrivare ad un punto di presa in giro e non rispetto totale del proprio lettore, da parte di certi siti. Il proprio gusto e la soggettività di analisi non si discute; ma ci son limiti oggettivi a cui si deve fare fronte: 17 a mezzanotte è un progetto fallimentare, amatoriale, spesso imbarazzante nella sua pretenziosità. Per di più, annoia… annoia tremendamente per lo spettacolo del vuoto che propone; laddove non sono la noia, l’amatorialità o il vuoto a prevalere, laddove accade qualcosa, è qualcosa che abbiamo già visto mesi, se non anni fa in altri film. Ok, low budget, ma quanto costa avere idee? Ecco, forse questo manca oggi per esser filmmakers: le idee.

Manca anche l’onestà per scrivere però, di film, con il giusto distacco ed obiettività; innanzitutto come si fa a scomodare un prodotto filmico come ABC OF DEATH anche solo per fare il paragone? Come si può usare l’aggettivo SPETTACOLARE per qualcosa che non rientra quasi nemmeno nel concetto di spettacolo stesso e che presenta una povertà di idee e mezzi da far perfino rivalutare i trash di A. Bianchi?? Come si fa ancora oggi a far confusione e mescolare il concetto di disgusto con quello di TERRORE? Forse l’assonanza fra splatter, viscere e sangue per qualcuno è sconvolgente, ma il terrore è un sentimento “nervoso”… emotivo, non una prova per lo stomaco. Il TERRORE va costruito da una narrazione e con una sapiente regia.

Non sono una persona che ama vedere negativo, ma qui davvero (in generale) c’è poco da salvare se non le buone intenzioni di alcuni… vediamo a “caldo” cosa mi resta impresso di positivo:

In alcuni episodi la tecnica è sopra lo standard: vedasi quello di F. Scargiali (il suo episodio è Through Your Lips) che si presenta disegnato da una bella fotografia ed effetti curati, ma su cui si insiste troppo fino a palesarne la (seppur ovvia) finzione. La storia non porta a nulla di particolare ed’è un peccato che si ripieghi in se stessa. Il regista ha poi presentato un buon prodotto con LOVE.LIFE.REGRET in cui la cura per i dettagli, fotografia ed effetti si sposano ad una storia di senso compiuto mostrando una soddisfacente crescita.
“Assuefazione” rivela un regista che sa il fatto suo, e non a caso è l’unico con una filmografia di rilievo e una indiscutibile esperienza: E. Tagliavini. Il corto presenta un concetto di orrore che poi diviene anche spunto di riflessione, e non si ferma solo sulla superficie di ciò che abbiamo appena guardato. Peccato per la povera fotografia che di certo non esalta il buon lavoro fatto.
Buona fotografia e direzione degli attori anche per D. Scovazzo per “Tutto il male del mondo” ma che risulta una idea buttata li, e forse fuori contesto se rapportata all’intera l’operazione. Fuori contesto anche lo scanzonato “Signori, Buonanotte” di R. Albanesi e S. Chiesa che risulta a tratti simpatico (poi, ripetitivo) ma decisamente non Horror. Avrei gradito una maggiore attenzione alla direzione della recitazione dei personaggi minori, e sentire (da spettatrice) meno fretta nell’allestimento e fotografia. Virare sulla commedia forse è un escamotage facile quando non si sa affrontare la paura, magari anche gli altri autori ne sarebbe usciti vittoriosi, ma credo l’intento comune del film fosse fare un horror.
Andrea Malkavian con “Il gioco” dimostra un gusto estetico interessante, e ci fa sperare in un nuovo nome da seguire, più in la… peccato anche qui la “storia” sia alla lunga noiosa perché ripetitiva e banale (e purtroppo parliamo di cortometraggi).
P. Del Fiol resta impresso per l’originalità di “Tomie Again”, sebbene anche qui con una cura maggiore della fotografia (senza dover per forza ripiegare su “iper-saturazioni” salvagente, e scontati, abusatissimi filtri “grindhouse”) ed effetti, si sarebbe sfiorati il buono.
Segnalo anche “Finchè Morte Non Ci Separi” girato da Stefano Rossi e sceneggiato da Lorenzo Paviano (l’accoppiata vincente di “Recording”) ed Alessandro Tentati… ma proprio perchè sembra riciclare lo stesso incipit e situazione e certo non marca bene sulla “voglia di fare” e le idee degli autori.

Per il resto, non so quasi cosa dire se non che bisogna esser davvero di bocca buona e con molto tempo a disposizione per restare soddisfatti dalla visione completa di un film che, laddove promette di basarsi solo sullo “splatter” lo fa con effetti dozzinali (e nel 2015 rimpiangere le frattaglie di D’amato e di Gordon Lewis è dura da mandare giù), e laddove vuole creare tensione lo fa con clichè e scopiazzature di scene madri di film, così noti ed abusati, da portarci alla conclusione degli eventi, a pochi secondi dall’inizio. Non sto entrando nel merito del mio gusto, sto analizzando solo certi aspetti base che sono la natura stessa del concetto di un film; e indipendente e amatoriale non son la stessa cosa; tantomeno esser di parte da “parte”di certi recensori può aiutare chi ha orecchie per “sentire” a crescere PROFESSIONALMENTE.

Quando leggo in giro gli autori difendersi con “ma è low budget, è girato in poco tempo” mi irrito, e risponderei: nessuno vi ha obbligato a farlo. Se prendete un impegno, lo spettatore vuole vedere il sudore e la fatica versati per onorare il vostro obiettivo e le promesse (vane) sbandierate ai 4 venti (“terrore come non mai”, “splatter insostenibile” e quant’altro!). Nel 1981 S. Raimi realizzava low cost e “fra amici” l’indipendente LA CASA/EVIL DEAD… e direi che voi avete dato al genere un dietrofront imbarazzante al punto di confermare la modernità di un film di oltre 30 anni prima… e mi chiedo a questo punto cosa avrebbe saputo fare Raimi se avesse avuto all’epoca a disposizione il digitale per poter girare e montare con costi minori e tempi più rilassati.

17 A MEZZANOTTE non è OGGETTIVAMENTE la rinascita del genere italiano, non è OGGETTIVAMENTE spettacolare, non è nemmeno OGGETTIVAMENTE un film. C’è davvero molta strada da fare davanti agli autori, per confrontarsi con un pubblico ampio, o semplicemente, abituato a una certa IDEA di qualità: al pubblico non interessa giustificare quanti soldi o tempo avevano gli autori a disposizione per fare un film o il corto. ragazzi: dovete prendervi la responsabilità del prodotto che presentate, e questo è solo un brutto lavoro amatoriale in cui alcuni con buone potenzialità, non sollevano affatto il risultato finale, ma ne restano soffocati e trascinati in basso.
Dovrei eticamente suggerire allo spettatore che mi legge, di farsi la propria idea guardando il film, certo sarebbe giusto, ma non mi sento di assumermi la responsabilità di consigliare la visione intera di un prodotto così. Son stati già scomodati perfino Lynch, Carpenter e Croneberg, io non mi sento di scomodare nessuno.

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il “caso” BABADOOK

BABADOOK è davvero un GRAN bel film.

Ma non scriverò “E’ il film dell’anno” o “è il film più spaventoso che abbiate mai visto”… perché non sono una fanatica, non sono pagata dalla distribuzione per farlo e, più semplicemente… non è vero.

Chi non ha visto film horror più spaventosi di questo, semplicemente non segue il cinema horror o non è andato nella sua filmografia indietro di oltre 10 anni.

Chi pensa che in questo anno BABADOOK sia l’unico film che vale la pena di esser visto, invece, non segue il cinema.

La critica (ufficiale o meno) dovrebbe iniziare a farsi un esame di coscienza, scendendo dal podio di detentori della verità assoluta e da quello di scribacchini pagati per promuovere il lancio di turno, per tornare al servizio di quello che è in tutto e per tutto nato come un SERVIZIO, ma al pubblico. Queste esaltazioni perpetue (che abbiamo già letto per il MAI NATO, per BITE, e che leggiamo per ogni singolo film che esce ogni settimana – e perfino per NON-FILM come IN THE MARKET o TULPA) spesso oneste, molto più spesso no, non fanno bene al cinema.

Ogni settimana esce il film dell’anno, che sia horror o meno… ad una attenta analisi di mercato… il livello del cinema mondiale dovrebbe esser altissimo, dovremmo esser circondati da capolavori fino allo stremo… ma non serve esser Gianluigi Rondi o il Morandini per capire che non è così… purtroppo c’è molta feccia in giro, al punto che quando vediamo un bel film, gridiamo al capolavoro.

Ma cosa è un capolavoro? Ecco… se pensiamo a QUARTO POTERE, APOCALYPSE NOW, TEOREMA, SHINING, SUSPIRIA, AMADEUS, 8 1/2… ecco solo per citarne alcuni… allora capiamo che BABADOOK è solo un bel film. Non lo dico per sminuirlo, a me il film è piaciuto… ma “elevandolo” oltremodo solo perchè nello squallore generale ha pochi rivali, sminuirei il lavoro di chi capolavori ne ha fatti davvero.

Ho visto il film in lingua originale e devo dire che il doppiaggio italiano ha massacrato la recitazione di tutti, soprattutto quella del bambino. Spero si prenda in questa mania esterofila che abbiamo, anche la buona abitudine di smetterla di doppiare i film.

La recitazione è ad alti livelli per tutti, così come la regia: posata e funzionale. Curatissima la fotografia e la scenografia che rendono l’ambiente quasi una grigia illustrazione bidimensionale, legata all’estetica delle immagini del famigerato libro.

L’idea di mescolare psicologia e metafore sui traumi personali in una trasposizione horror è antica, ma ben venga. Inquietante al punto giusto, spaventa e resta impresso anche se nella seconda parte perde un pò di colpi pur trovando un grande ritmo. Nella seconda parte si cede all’andare incontro al gusto del largo pubblico, riuscendoci bene, ma ammazzando un pò la dimensione “sottile” creata con la prima parte. Mostrare la creatura che si muove a scattini come i fantasmi dell’immaginario Nipponico invece è una caduta di stile imperdonabile che denota una voluta strizzata d’occhio ad una estetica ora “alla moda” (ma in realtà già passata) in scelte visive che invece potevano permettersi di restare “stilose” e personali.

Gli australiani sanno fare cinema. Hanno stile, cultura dell’immagine, conoscenza del linguaggio e sempre una certa dose di originalità. Tutto ciò che ci è sempre arrivato (da Peter Weir alla Champion, ma pure passando per “commedie” come MR CROCODILE DUNDEE) è sempre stato sopra la media generale e questa non è una esagerazione.


Trama (da Wikipedia)

Amelia è una madre vedova che ha allevato da sola il figlio Samuel dopo la morte del marito in un incidente stradale. Samuel è convinto che mostri minaccino lui e sua madre, e sviluppa problemi di comportamento. Una sera, Amelia trova in casa un libro per bambini che non ricordava di possedere, intitolato Mister Babadook, e lo legge a Samuel. Samuel si convince che la creatura descritta nella storia sia il mostro che li perseguita, e diventa sempre più incontrollabile. Nei giorni successivi in casa si sentono rumori misteriosi, Amelia è vittima di allucinazioni, e inizia a vedere un’ombra simile al Babadook, che le intima di consegnargli suo figlio. Giunta al limite, tenta di disfarsi del libro, che però si ripropone sempre integro in casa, ogni volta con pagine in più che portano avanti la storia verso un culmine di violenza. Infine una notte il Babadook si rivela direttamente ad Amelia e si impossessa progressivamente di lei. La donna inizia a dare segni di squilibrio, rinchiude in casa se stessa e il figlio, diventando sempre più aggressiva, fino a strangolare il suo cane e quasi ad uccidere il figlio. L’affetto del bambino però le dà la forza di resistere.

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WE ARE STILL HERE

Questo è indubbiamente il risultato di un cinema davvero indipendente,  che non ha bisogno di grandi budget per esprimere al meglio le proprie idee; negli ultimi mesi si è parlato moltissimo (almeno negli ambienti “di genere”) di WE ARE STILL HERE che è stato descritto come un film in grado di recuperare le atmosfere tipiche di un certo cinema anni Settanta e Ottanta, e in particolar modo quelle di Lucio Fulci.

Da appassionata di Fulci devo dire che tecnicamente le regie di questi autori son davvero distanti: non bastano degli occhi bianchi e una cantina “infestata” a far pensare ad un voluto richiamo a film come L’ALDILA’: manca il marcio, l’ambiguo ed il cupo pessimismo dei film tipici Fulci, manca la malinconia e mancano stilisticamente le zoommate ed i giochi tipici di silenzi e sguardi fra gli attori. Manca l’indugiare anche sul sadismo degli omicidi. Mancano insomma caratteristiche perfino banali ad una prima osservazione per smontare le forzate teorie dell’omaggio, ma questo lo scrivo come un valore aggiunto perchè Geoghegan racconta con uno stile personale ed elegantemente efficace, la “sua” storia senza avere debiti con nessuno.

E’ vero che certe ambientazioni ed atmosfere rimandano un pò a film come QUELLA VILLA ACCANTO AL CIMITERO, ma del resto lo stile architettonico della provincia americana è quello. Io sottolineerei invece, l’uso della macchina a mano, sempre discreto ma voyeuristico, quasi a dare le perenne sensazione che in casa ci sia qualcuno ad osservare i protagonisti nella loro quotidianità. Questa semplice trovata, ci porta spesso a vedere le scene come filtrate attraverso gli occhi di un misterioso ed invisibile fantasma, lasciando addosso una tensione costante anche laddove poi, non accade niente.

Le fluide inquadrature in movimento negli interni, contrastano con le statiche, quasi pittoriche inquadrature degli esterni: paesaggi sempre avvolti in un bianco irreale che quasi ci fa sentire parte di quell’innevato e silenzioso luogo. La fotografia in questo è notevole, giocata su controluce spesso sovraesposti e giocando più di luce che di oscurità; decisamente atipico quindi (almeno per il cinema americano o europeo) l’ambientazione quasi completamente diurna anche delle scene più spaventose. Ottimi gli effetti artigianali, sapiente il dosato uso della CGI che non stona mai e bello l’impianto sonoro… essenziale, astratto, quasi umorale senza temi invasivi o piazzati ad effetto per rafforzare cali di tensione: qui la tensione c’è e spesso…. dove è più forte ogni commento sonoro intelligentemente si fa da parte per lasciare spazio alle interpretazioni. Dolce la ritrovata LISA MARIE, convincenti Barbara Crampton (Re-animator, From beyond) e Andrew Sensenig… ma davvero strepitoso nel suo piccolo ruolo il veterano Larry Fessenden che – specie nella scena della “possessione” – ci regala sani brividi grazie alla sua mimica facciale e vocale (e che curiosamente, ricorda nelle fattezze fisiche il Nicholson di Shining).

Se vogliamo trovare un difetto al film, forse è la troppa carne al fuoco… lo sceneggiatore volendoci donare più di un colpo di scena, aggiunge degli elementi (di sapore Lovecraftiano) senza i quali il film avrebbe giovato in scorrevolezza. Forse ci bastava “solo” la GHOST STORY, senza sviare troppo in altri contesti che appaiono forzati, e che senza i quali il film reggeva lo stesso… ma questo rientra nel mio gusto personale. A costo di apparire esigente, dico inoltre che è un buon film, ma non un capolavoro… come viene sbandierato in giro… e lo dico sempre per non far torto ai capolavori che nel genere non mancano, nè son mancati. Va di moda oggi lasciarsi trasportare “di pancia” in entusiasmi a volte poco professionali, col rischio di gridare al capolavoro ogni volta che si vede un lavoro onesto e ben fatto. La realtà è che invece, purtroppo, è la media generale che è bassa. Spesso sentiamo (e leggiamo) definizioni di GENIO solo per qualcuno che sa fare bene il suo lavoro… ma, credetemi, già questo non è poco.

Ce ne fossero di più di film così curati, ragionati e, soprattutto, ben interpretati e con una regia che ha il coraggio di non esser debitrice a nessuno! Lode a Ted Geoghegan, sebbene poi… volenti o nolenti, la moda della critica italiana e non, è quella di paragonare sempre questi registi e le loro opere al lavoro di qualcuno che li ha preceduti (ed in tempi d’oro, se vogliamo) per poter dire “è buono” o “non è buono” vanificando spesso gli sforzi che gli autori mettono per affermare la loro individualità.

 

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il massacro di ZOMBIE MASSACRE

la trama: Un’arma batteriologica – sviluppata dal governo degli Stati Uniti per creare un super soldato – si diffonde nell’aria ed un’epidemia colpisce una piccola e tranquilla città nell’est europeo. Tutti i cittadini della città vengono infettati da questa arma e si trasformano in zombie.
Il piano per salvaguardare l’umanità è portare una bomba atomica nella centrale nucleare della città e fingere un incidente terribile, per eliminare questi zombie. Nessuno deve sapere la verità. Così viene ingaggiato un commando di mercenari per fare la missione. La battaglia è accesa e orde di mostri e creature si scaglieranno nei confronti di questo gruppo di uomini.


l’opinione: letta, la trama sembra davvero divertente ed intrigante… peccato che la visione del film non sia all’altezza delle aspettative che genera, non sia all’altezza della trama scritta, non sia all’altezza di essere chiamata una visione… e non sia all’altezza di niente, ecco.

Diciamocela tutta: sembra che la sceneggiatura non vada oltre le 6 righe da me sopra riportate, che il film sia frutto di una idea “stiracchiata” in maniera inconcepibile… dove non solo manca il MASSACRO (a meno che il titolo non faccia riferimento agli zebedeidi chi guarda) ma mancano per assurdo perfino gli Zombies.

Diciamo anche che i personaggi (tutti) parlano al rallentatore (forse per far durare di più il film?) e son sempre perfettamente “impomatati”, pettinati e puliti (come anche gli abiti dei morti viventi)… il tutto senza farci godere dell’effetto trash/divertente che rende cult operazioni similari; e così, fra uno sparo digitale (pessimo) e un altro, si dialoga così tanto sul niente e di niente in questo film, che quasi si va a sfiorare il teatro dell’assurdo, spingendo lo spettatore a distrarsi dalla visione per cercare profonde verità e significati in ciò che gli attori dicono… purtroppo, ovviamente invano. Se non altro queste elucubrazioni filosofiche(forse scaturite da motivazioni/allucinazioni del tutto personali, quindi non vi garantisco gli stessi effetti durante la visione) mi han permesso di andare avanti senza “skippare” trovando qualcosa di interessante da fare durante la visione… a forza di pensare però, ammetto che invece di trovare me stessa, probabilmente grazie a questo film mi son persa.

Gli attori son tutti scarsi, mal diretti, piatti… ed i personaggi risultano tutti antipatici! Non vedi l’ora che siano loro a perire invece di quei poveri zombie dal make up (Bracci/Diamantini) decisamente buono, che però non può regger sulle spalle tutto un circo che gira a vuoto su se stesso. Laddove non son antipatici, i personaggi son ridicoli… vedasi la povera “combattente con katana”, una Tara Cardinal (vista in prove migliori nel film diZuccon) che probabilmente ha rischiato la carriera con questo ruolo, ma che fortunatamente ha poi continuato a lavorare.

Fotografia quasi assente, televisiva pesantemente aiutata da una pretenziosa color correction da videoclip. Montaggio senza ritmo, regia senza carattere… storia inesistente, attori scarsi… davvero c’è poco da salvare qui. Non diverte… se doveva esser trash grottesco ed ironico (come il finale lascia intuire) si prendono tutti TROPPO sul serio.

Pare abbia avuto buoni riscontri all’estero, così si legge in giro… sebbene la media su IMDB sia di una stellina sola. Distribuzione ampia, sicuramente non significa necessariamente che si stia proponendo qualcosa di qualità.

Se doveva essere un horror dal respiro internazionale, questo più che dare respiro, sembra una nuova metastasi nei già malati polmoni del cinema italiano.

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ancora il circo come metafora della vita: STRANGE CIRCUS

Giustamente premiato a Berlino nel 2006, questo STRANGE CIRCUS è uno dei film più belli che io abbia mai visto negli ultimi anni. E giustamente, essendo bello, è un film che difficilmente vedremo distribuito nel belpaese dei bungabunga.

Sion Sono (SUICIDE CLUB) è un artista completo che spazia dalla scrittura del film alle partiture musicali, fino ad orchestrarne la regia… è un film quasi musicale questo, con bizzarre eco felliniane.

Attori strepitosi, in ruoli che difficilmente vedremmo affrontare ad attori europei, in film che difficilmente vedremmo fare a registi non asiatici. Grandiosa, bella, credibile, commovente ed intrigante Masumi Miyazaki, mozzafiato Rie Kuwana (inutile dire che non ho mai visto una bimba di un film asiatico recitare male…) e curioso il cameo “pacato” di  Tomorowo Taguchi, l’interprete dei cult TETSUO di Tsukamoto, di uno dei GUINEA PIG ed icona odierna di Takashi Miike.

Menzione d’onore però va per me alla performance tutta sopra le righe, di un personaggio così poetico e teatrale (Robo Chan) da risultare il più vero di tutti… parlo di quello interpretato da un grandissimo Issei Ishida.

C’è molta cultura classica in questa opera, ma molti richiami anche al fumetto moderno MANGA con tutte le perversioni sessuali fetish e violente dal sado maso al bondage al sesso con studentesse. Fotografia impeccabile, scenografie sontuose, costumi e trucco di alto livello (uno fra tutti quello della drag queen che gestisce il cabaret) rendono ogni istante poesie… una poesia che nonostante il tema complesso, le violenze (più psicologiche che fisiche), il sesso malato ed il ritmo “adagiato”, non si riesce a non guardare.

la trama: Mitsuko, una ragazzina di 12 anni, un giorno, assiste involontariamente ad un rapporto sessuale dei propri genitori.
Il padre, un uomo molto più anziano della madre (perfetto nel ruolo Hiroshi Ohguchi), e di natura viziosa, se ne accorge e, da quel momento, le dedicherà delle “attenzioni” molto particolari, portando alla pazzia sua madre, Sayuri.
Taeko è una scrittrice inferma che pubblica romanzi erotici perversi.
Un giorno entra a far parte del suo staff editoriale Yuji un giovane ragazzo dall’aspetto androgino. Questi si mette subito ad indagare sulla vita privata ed il passato della donna.
Che relazione c’è tra le due storie? Qual è la realtà e quale la finzione?

Come molto cinema asiatico di tempi recenti (la trilogia coreana diChan-Wook Park, The Housemaid di Im-Sang Soo, molti film di Takashi Miike) il tema centrale è la vendetta, anche se il regista fa di tutto per celare allo spettatore i nodi principali della vicenda: vendetta di chi nei confronti di chi? Il film è consigliato a tutti quelli che amano pensare e ragionare durante una visione,ricostruire una trama, perdersi tra scambi di ruolo, essere portati in una direzione e poi trovarsi ribaltati in un’altra. In questo film racconta il dramma di una donna, non quello di sua figlia.

E mentre sul pubblico Mitsuko accecata dall’odio sta lì a guardare ed applaudire sua madre morire il boia, quel boia schifoso, è suo marito: è lui l’unico che doveva finire su quella ghigliottina.

CONSIGLIATO: si, a chi sa ancora innamorarsi del cinema come forma espressiva di un autore che ha dentro il film con il suo tempo, il suo ritmo, la sua vita… pulsante… un autore che guarda prima alla realizzazione di se stesso… e dopo, ammicca allo spettatore… che però, nell’attesa non resta deluso.
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L’evocazione – The Conjuring

Nel 1971, ad Harrisville, nel Rhode Island, Carolyn e Roger Perron si trasferiscono in un vecchio casale con le loro cinque figlie. Durante il primo giorno le cose sembrano andare per il meglio, anche se trovano la porta della cantina stranamente sprangata e il loro cane si rifiuta di entrare in casa. Il mattino dopo, Carolyn si sveglia con un misterioso livido e il cane viene ritrovato morto. Nei giorni a seguire nella casa si verificano varie forme di attività paranormale, le quali culminano con Carolyn che si ritrova intrappolata in cantina mentre una delle figlie viene attaccata da uno spirito somigliante ad una donna anziana;  horror soprannaturale basato sui fatti riportati dalla coppia di ricercatori del paranormale Ed e Lorraine Warren, le cui esperienze in precedenza avevano già ispirato film come Amityville Horror e The Haunting in Connecticut. La trama, ambientata nel 1971 nel New England, è quindi incentrata sul tentativo dei Warren, interpretati da Patrick Wilson e Vera Farmiga, di aiutare una famiglia da poco trasferitasi in una casa infestata, i Perron, i cui genitori sono impersonati da Lili Taylor e Ron Livingston.

La sceneggiatura è per lo più fedele alle storie narrate dai reali protagonisti ed il regista Wan affermò come impronta stilistica di voler lavorare per sottrazione: «È quello che credi di vedere attraverso la musica e il design sonoro che realmente ti prende», spiegò il regista, il quale preferì quindi che per buona parte del film le entità demoniache potessero essere solo «percepite».

Il film funziona e fa paura: pur sfruttando clichè tipici riesce ad esser sempre sorprendente e con i giusti tempi di suspance ed attesa. Notevole in questo senso l’incipit affidato alla bambola Annabelle  – che sarà protagonista di un disastroso spin off (e di cui forse parlerò più in la, ma anche no) – e le scene del “nascondino” che ci introducono sadicamente verso terrori prevedibili e che proprio per quello spaventano; pensate alle classiche scene dove la fanciulla nuota ignara nelle temibile acqua dove vaga “lo squalo”… sappiamo tutti cosa accadrà da li a poco, eppure ne siamo terrorizzati. Alcuni sostengono che la paura sia la reazione davanti all’ignoto; il cinema spesso sovverte questa regola.

Sfruttando quasi la stessa, vincente squadra tecnico/artistica del precedente INSIDIUS, Wan si muove a suo agio nello spazio filmico e temporale, osando (cosa rara al giorno d’oggi) perfino di risultare controcorrente: nelle scene nelle quali i personaggi vedono un fantasma, il regista decide di non mostrarlo allo spettatore, il quale vede solo l’espressione terrorizzata del personaggio; tale senso di invisibilità rende una scena più paurosa, lasciando immaginare al pubblico cosa il protagonista potrebbe aver visto di tanto raccapricciante

Il direttore della fotografia è John R. Leonetti, spiegò di aver utilizzato una tavolozza di base per tutto il film, cercando di ottenere illuminazioni naturali; per la cantina invece venne usata solo una sola lampada da 250 watt, ed i fiammiferi che vediamo usati dai protagonisti.

Campione di incassi (meritato) ed un budget milionario che appena si percepisce, ma non per una possibile povertà stilistico/tecnica o qualitativa, ma perché ben sfruttato nella perseveranza di ottenere un unico risultato attraverso la fusione di tutti gli elementi senza sopraffazioni verso il raggiungimento dell’obiettivo: il film. Un’opera commerciabile, ma non commerciale che ci fa sperare nella ribalta di un genere troppo contaminato, troppo accomodante che ha trasformato i mostri in marionette al servizio del bell’eroe di turno, privandoli della loro originaria carica negativa che sta alla base di ogni anti-eroe filmico per eccellenza.

Le stesse tematiche ispirarono anche la serie di AMITYVILLE, in cui si respira – fortunatamente – la stessa aria malsana, la stessa impalpabile inquietudine, fornendoci una “ispirata” ma, purtroppo poco riuscita pellicola cult col primo film AMITYVILLE HORROR, per proseguire nel bellissimo sequel “italico” di Damiano Damiani AMITYVILLE POSSESSION (e di questo si, che presto parlerò!) per concludere miseramente con un terzo capitolo che sfrutta quelle produzioni di moda negli anni ’90, dei film in 3D… dimenticando però di fare anche il film assieme al 3D che propongono (ne furono vittime anche classici come Venerdi 13 e Lo squalo).

Tornando a CONJURING: pochi effetti speciali, calibrata ed efficacemente elegante la CGI che si presta a suggestioni mai pacchiane ed una scena di esorcismo elegante, insolita, quasi artistica nella scelta di lasciarci la posseduta sotto un telo, senza offenderci con l’ennesima sequela di faccette, occhiacci e vomiti abusati dalla cinematografia mondiale per 40 anni. A volte basta “togliere ” il superfluo per fare un buon film, a volte basta “solo” raccontare una storia, senza farne percepire il peso… per farcela vivere in prima persona. Wan ci riesce alla grande, supportato da attori credibilissimi, un ottimo sound design e le atmosferiche “corde” del compositore Joseph Bishara che inizia ad esser molto imitato nel genere. DA VEDERE!

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il campione del mondo di kick boxe in uno spot da “brivido”

Kazim Carman, già campione europeo e mondiale di Kick boxe, sarà il testimonial per un prodotto dietetico affiancato dall’attrice e modella Olga Shapoval (Boris, Don Matteo).
Kazim non è nuovo alla recitazione, è stato infatti per anni interprete della più famosa fiction della televisione turca… e la regia è affidata a un “maestro del brivido” come Domiziano Cristopharo, autore di film come THE MUSEUM OF WONDERS con Mariagrazia Cucinotta, VIRUS con Paola Barale e TRANSPARENT WOMAN con Roberta Gemma.
Ma i “brividi” in questione li assicurerà la neve, più che la trama: ambientato nelle suggestive vette di Engelberg (Svizzera), lo spot sarà una sfida estrema alle intemperie e alle basse temperature. Il tema dello spot sarà firmato da due nomi di prestigio: Il maestro Salvatore Sangiovanni (Royal London Academy) e Susan diBona una delle compositrici americane più attive in europa.

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da Lovecraft a Carpenter nella “Trilogia dell’Apocalisse”

Mentre aspettiamo l’avvento di Guillermo Del Toro, grande ammiratore di HPL, che ha appena comunicato d’esser pronto a portare sullo schermo il più importante dei suoi racconti, Le Montagne della Follia, lo sguardo si volge al passato, perché HPL ha comunque avuto, nonostante la scarsità di pellicole dedicate, ottimi estimatori tra i grandi nomi. Tra gli altri, Stuart Gordon, regista dell’indimenticabile Reanimator, di fatto la prima opera di Lovecraft ad essere portata sullo schermo con successo (per essere precisi la prima era La città dei mostri, di Roger Corman, anche se vengono citati come ispirazione sia HPL che E.A. Poe). Il Lovecraft degli orrori ignoti che attendono nell’Altrove dei Grandi Antichi, delle città come Arkham (che non esistono nella realtà) lo ritroviamo nella sua migliore forma nel visionario Il seme della follia, di John Carpenter (1995).

Howard Phillips Lovecraft morì all’ospedale di Providence il 15 marzo 1937, ad appena 47 anni, di tumore all’intestino. Morì solo e povero: nessuno, a parte rari amici della sua città natale, sapeva della sua malattia, e i suoi racconti pubblicati sulle riviste specializzate allora più note (Amazing Stories, Astounding Science Fiction e soprattutto Weird Tales) non gli davano alcuna sicurezza economica. Era, certo, assai noto, fra gli «amici di penna» e i lettori, ma non si può dire che avesse una vera fama letteraria; questa gli giunse solo dopo la morte e col tempo, è aumentata sempre più: oggi il suo nome è conosciuto in tutto il mondo e i suoi scritti tradotti in moltissime lingue. E il primo a meravigliarsi di tutto questo sarebbe stato proprio lui, ipercritico nei confronti di se stesso.

La maggior parte delle opere di Lovecraft sono ispirate dai suoi incubi e forse il continuo e duraturo successo dei suoi racconti si deve proprio a questo collegamento diretto con i simboli dell’inconscio. I suoi «mostri» non è che non siano “rappresentati”, ma non è sul loro aspetto esteriore che si basa la paura che incutono, bensì sulla loro totale estraneità al mondo dell’uomo: sulla indifferenza a esso, sul retaggio di un passato a noi sconosciuto, sul desiderio di riprendere possesso di una loro antica proprietà che è la Terra, sull’annullamento e sulla sospensione delle leggi fisiche che governano il nostro mondo e ci danno sicurezza. Strettamente legato al tema precedente è il pessimismo cupo e angoscioso che permea tutta l’opera di Lovecraft. Nella sua concezione, definita cosmicismo, gli esseri umani sono, nella scacchiera dell’universo, pedine insignificanti sovrastate da potenze sconosciute e terribili. Lovecraft sdegnò in modo pressoché sistematico ogni forma di “lieto fine”; non a caso, nelle sue storie i protagonisti sono spesso antieroi che vanno incontro ad una fine tragica o appaiono solo come spettatori di vicende terrificanti, il cui esito non sono assolutamente in grado di modificare.

La trilogia dell’Apocalisse di John Carpenter è una trilogia tematica di film, che include La cosa, Il signore del male e Il seme della follia. Anche se non ci sono personaggi ricorrenti o legami tra i film, il regista ha spiegato esplicitamente nei suoi commenti DVD e nelle interviste che li considera parti di un corpo di lavoro unico, e si riferisce a questi come “trilogia dell’Apocalisse”.

Il seme della follia è pesantemente influenzato dai lavori di H. P. Lovecraft ma non sviluppa nessuna delle sue storie; più che altro si focalizza sulla relazione di un autore horror come Lovecraft e il suo pubblico. L’omaggio lovecraftiano più rilevante che attraverso un riuscito espediente Carpenter riesce a fare al nostro con il suo Il seme della follia, è però legato all’importanza della parola: Lovecraft era un convinto sostenitore della potenza della parola narrata, elemento facilmente riscontrabile nei suoi racconti, ricchi di grimori e libri proibiti, formule magiche e lingue perdute e oscene. Era attraverso oscuri formulari che le divinità malefiche ritrovavano la strada di casa – attraverso libri che la memoria dovrebbe dimenticare, come il già citato Necronomicon; perché è attraverso le parole che il male antico è  sopravvissuto e adesso dorme, in attesa che qualcuno lo risvegli. Usando le giuste parole: Carpenter sfrutta questo aspetto della prosa di Lovecraft, portando avanti in discorso simile e facendo di un libro, il testo dello scrittore protagonista, il veicolo della rinascita dei grandi antichi e delle sue parole il filo conduttore dell’intera storia, addirittura trasformando detto filo in una corda da equilibrista, muovendosi a cavallo tra una dimensione meta-filmica e una meta-letteraria. Il povero John Trent finisce così dentro una storia di Cane, che poi è una storia di Lovecraft, divenuta una storia di Carpenter… e in un cerchio, letteralmente, senza fine e senza scampo.

In questo “cerchio” si sviluppa in modo più pertinente e riuscito il precedessore Il signore del male, e la forza del film sta proprio nella “semplicità” del soggetto di partenza a dispetto della complessità delle materie trattate: l’oggetto d’indagine non è tanto il liquido verde in sé, né il rapporto tra bene e male; quello che Carpenter vuole indagare è il comportamento dell’uomo davanti all’irrazionale e l’atteggiamento di istituzioni come la scienza e la chiesa, davanti alle difficoltà.
Cosa sia specificatamente l’altra dimensione che si trova dentro a quello specchio (o come sia scientificamente definibile l’indefinibile) al regista (e allo spettatore) non è dato sapere; l’unica cosa verificabile è come quel muro di convinzioni, per cui l’uomo ha combattuto nel corso di secoli di storia, possa essere abbattuto in un attimo da ciò che non si conosce, facendoci affondare nell’insicurezza.

La cosa è un remake di La cosa da un altro mondo, ed è una versione molto più fedele del racconto Who goes there? che però è terribilmente debitore a LE MONTAGNE DELLA FOLLIA; questo libro infatti può essere considerato il precursore di un genere di racconti su storie di spedizioni alle regioni polari ormai divenute trame classiche. Tra essi possiamo ricordare Ice Station e Artico, ma anche di film più recenti come Alien vs Predator e fumetti e manga come Devilman e Mao Dante.

Basta legger la trama del romanzo di Lovecraft per credere di leggere la trama de LA COSA: “Una spedizione di sedici esploratori si trova in Antartide per condurre alcune ricerche. La storia è raccontata in prima persone da uno di loro, il geologo William Dyer. Il gruppo fa una scoperta incredibile: all’interno di una caverna vengono rinvenuti i resti di alcune creature mostruose, simili a raccapriccianti umanoidi anfibi.
Gli esseri, da una prima stima, sembrano essere sepolti in quello stato da milioni di anni e per questo viene dato loro il nome diantichi.
Contemporaneamente alla scoperta, un cane e un uomo di nome Gedney scompaiono senza lasciare tracce. Gli altri cani sembrano provare un astio furioso verso le creature, al punto che se potessero ne dilanierebbero le viscere.
I corpi vengono prelevati e custoditi al campo base. Dyer e un giovane ricercatore di nome Danforth salgono a bordo di un piccolo aereo per esplorare l’area intorno alla caverna. Con loro grande sorpresa, sulle montagne della zona scorgono  le rovine di antiche città abbandonate (?) e sepolte dalla neve”.

Come in Lovecraft, anche ne La cosa, i protagonisti non sono uomini d’azione. Non devono esserlo. L’effetto disgregativo delle strutture sociali e razionali è più efficace quando i soggetti sono uomini di scienza. Il pilota di elicotteri interpretato da Kurt Russell (Fuga da Los Angeles, Grosso guaio a Chinatown) è l’ultimo a cedere proprio perché uomo d’azione; ma anche lui, alle prese con un nemico non identificabile, finisce per essere risucchiato nel vortice del sospetto e dell’impotenza, mentre il mostro continua ad assimilare i suoi compagni. Carpenter ci spinge verso questi “mostri quasi invisibili”, e verso quegli onirici viaggi in mondi assurdi e violenti, alla ricerca dei mostri nelle immensità dello spazio, che esistono nel fondo dell’animo umano.

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LORD OF TEARS, lacrime di coccodrillo

Baldurrock’s House ha una cattiva reputazione: costruita sul sito di un vecchio tempio pagano, la fatiscente residenza nasconde molti segreti inquietanti. James Findlay, problematico insegnante tormentato da strane visioni che a Baldurrock è nato, decide di farvi ritorno in cerca di risposte. Incontrando Evie Turner, una giovane e bella donna americana, James inizia a scoprire alcune terrificanti verità che minacciano di annientare entrambi per via di una vecchia maledizione.

lungometraggio Inglese prodotto interamente grazie al Crowdfunding di Kickstarter, LORD OF TEARS grazie ad una campagna spettacolare lanciata sul web, fatta di numerosi trailer, di un sito di forte impatto, è riuscito a raggiungere velocemente la cifra che occorreva per girare il film (appena 6.000 Sterline), riuscendo a chiudere il progetto con ben 12.587 Sterline!

Il film di Brewster è una ghost story che non fa dell’originalità il suo punto di forza ma è una produzione che riesce a intrattenere e perché no? anche ad avvincere pur nella prevedibilità di alcuni snodi narrativi.

Diciamo subito che le cose buone in questa opera prima ci sono, ma che purtroppo sono sopraffatte da quelle negative.

Di buono c’è un innegabile senso della composizione, una ottima fotografia in esterni, gli attori (bravi tutti, sebbene poco conosciuti), la colonna sonora, l’idea di base, le azzeccate locations ma soprattutto, la voglia di costruire un horror insolito, personale, non banale.

Di negativo c’è che questo senso della composizione tende a diventare un pò troppo estetizzante e fine a se stesso, una fotografia in interni troppe volte piatta e poco curata… aggravata spesso dall’uso di filtri eccessivi che danno al tutto il sapore di un videoclip indipendente più che film indie  (specialmente i timelapse ed i flashback) ed una storia complessa che però fa acqua proprio in certi “presunti” colpi di scena, curiosamente spoilerati da una scrittura prevedibile e… anche dalla colonna sonora (vedi la scena della piscina, e la song che recita IO SONO IL TUO FANTASMA, E TU MI MANCHI!!!).

Se LORD OF TEARS è un film che punta sulla autorialità, eleganza e ricerca stilistica al di sopra delle mode, diventa allora imperdonabile – proprio nel finale – vedere questo ossessivo richiamo (fuori luogo) ai fantasmi dell’immaginario asiatico, con la donna pallida dal capello scuro spalmato sul viso e movenze scattose alla Kayako di THE GRUDGE che però 10 anni dopo risultano un pò ridicole e poco funzionali. L’attrice Lexy Hulme è davvero brava nel ricreare la recitazione e le movenze delle pin up; è perfettamente in parte e anche abile nell’esprimersi col corpo e la danza: troppo lunga, riempitiva e fine a se stessa diventa però la scena del balletto, subito seguita da una scena (quella in piscina) dove la stessa si ripropone danzando e quindi nel finale vederla muovere come le striscianti figure Nipponiche penalizzano anche la sua abusata bravura gestuale.

Ammaliante la voce dell’uomo Gufo, affidata a David Schofieldattore di grande esperienza visto in cult come L’ULTIMO DEI MOICANI e IL GLADIATORE che compensa e distrae dal troppo amatoriale costume della creatura/gufo (altrettanto finta ma MOLTO più efficace era la maschera usata in DELIRIA, ma li a dirigere c’era un personaggio di grande esperienza come Michele Soavi!). BLOODY DISGUSTING lo votò con troppo entusiasmo, miglior film del 2013, il che indica anche come le produzioni di buon livello siano scarse sebbene non è difficile comprendere che il taglio del film sia rivolto ad un pubblico mediamente giovane e meno smaliziato. Gli effetti scarseggiano, le lenti a contatto son davvero di bassa qualità (oramai anche su ebay ne forniscono modelli più sofisticati e realistici per poche decine di euro!) e non si capisce come mai una persona dalla testa recisa, appaia come uno spettro la cui gola è tagliata solo nella parte frontale… e non sono nemmeno eccessivamente logiche, plausibili o “spiegate” le dinamiche per cui una presenza amichevole, di punto in bianco diventi ostile proprio verso la persona che cercava di proteggere, se non solo per creare un inatteso twist che una scrittura più curata avrebbe evitato. Il protagonista Euan Douglas, è in parte e sostiene la vicenda anche nei passaggi meno credibili (sebbene sembri un pò troppo dispiaciuto per la morte di una madre da cui eredita una fortuna, e che non vedeva dalla sua infanzia!) mentre la figura del migliore amico è troppo abbozzata per avere poi, il peso che ha nella vicenda.

Sicuramente il regista saprà donarci in futuro qualcosa di prezioso, per il momento, mi sento di andare controcorrente e non promuovere a pieni voti un opera che lascia in conclusione il senso di amaro in bocca, quello delle occasioni sprecate.

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E.N.D. l’inizio della fine

Lo aspettavo da tempo… ebbi modo di vedere online E.N.D.  il primo pluripremiato capitolo di questa serie nata per il web, ma che ha avuto la fortuna di approdare al cinema… ora la ONE SEVEN MOVIES, una label specializzata nel distribuire film italiani in USA, ne ha curato la distribuzione in una edizione arricchita da simpatici extras e tante “palmette”… e così, per vedere un film italiano ambientato in italia e girato in italia, ho dovuto aspettare anche stavolta che uscisse all’estero. Bizzarrie del BELPAESE.

Così, il pilota della serie diventa ora il primo dei 3 capitoli che compongono un film.

E.N.D.  – che significa FINE ma è anche l’anagramma della formula chimica della cocaina – è un film in 3 capitoli, o meglio… un film che ci porta ad assistere a 3 momenti di una epidemia “zombesca”:l’inizio, la diffusione del “contagio” e la situazione nel momento massimo di esso. Il finale si lascia aperto ad un sequel (o ad altre puntate per la famosa webserie).

Di originale c’è l’impianto che parte come un film commedia, dove l’incursione zombesca viene solo appena suggerita… ed il metodo di contagio che passa per una partita “tagliata male” di cocaina. Peccato che questo incipit geniale (e chi mi legge sa che non scrivo facilmente questa parola), venga poi trascurato nel resto del film. Maggiori richiami ad esso, specie nel finale, avrebbe giovato alla coerenza narrativa e avrebbe consacrato l’opera a piccolo cult. Ma purtroppo, non siamo al cult.

Non è un brutto film, sia chiaro, ma si perde spesso e… la colpa non è nella discontinuità degli episodi – come quasi sempre accade nei film episodici/collettivi – qui la qualità è sempre alta, e la differenza strutturale dei 3 segmenti è più che giustificata.

Quel che non va è la narrazione generale, che si contorce su se stessa in barocchismi inutili, dimenticandosi che si sta facendo un film (a quanto vediamo) di impianto zombie si, ma di nuova generazione (e quindi non proprio politico, quanto più di intrattenimento) che cade laddove l’autore vuoleautoincensarsi in significati che – tolta la metafora della cocaina – non stanno né in cielo né in terra… e questo proprio a causa della leggerezza con cui il tema della droga è stato non-trattato; se fosse stato più di un semplice pretesto avrei accettato di tutto dagli autori. Ma così no.

Il primo segmento (di Luca Alessandro, Allegra Bernardoni e Federico Greco) quindi è insolitamente senza zombie e senza horror; è recitato e fotografato bene e nell’insieme incuriosisce e convince.

Il secondo segmento è oggettivamente il migliore: Domiziano Cristopharo ricorda le lezioni di Fulci e Romero, non si prende sul serio, non vuole nemmeno avere una trama (sebbene la firma dello script sia di Antonio Tentori) in quanto, collocato fra 2 momenti (inizio e “fine”) il suo racconto cerca solo di rappresentare una fuga disperata verso il nulla… una fuga inutile, in quanto gli zombie qui non muoiono (come nel bellissimo RITORNO DEI MORTI VIVENTI) e la fuga si riduce solo ad un istinto umano che rallenta il  destino dei protagonisti. Ottimi effetti speciali, atmosfere cupe nonostante il sole che spacca le pietre, credibili le interpretazioni… e un commento musicale (di Antony Coia) che sembra farci tornare agli anni 80 migliori. Meno buoni alcuni piccoli interventi digitali che però non son abusati.

Il terzo segmento, diretto da Federico Greco (stavolta da solo) ha una buona idea di partenza, che oscilla fra l’horror ed il grottesco, ma che sembra non voler prendere mai una posizione… ed infine quando la prende… prende quella sbagliata. Il finale cappa e spada fra i due “antagonisti” (a parte che il film non racconta di un atavico odio fra i due, che sembrano ritrovarsi qui, ma senza essersi mai incontrati) sfiora il ridicolo nella recitazione e nei CONTENUTI dei dialoghi… poi, presenta una macchinosa soluzione per eliminare gli zombie che… io non faccio spoiler, ma se così fosse, in un mondo dove i pochi umani son assediati, questi ultimi sidecimerebbero da soli. Per di più (senza apparente motivo narrativo) questo episodio presenta una inutile soluzione per “ferire” gli zombie attraverso l’estrazione del cuore. Si, FERIRE, ma senza ucciderli… e allora mi chiedo: perchè dovrei arrischiarmi di venire contagiata/uccisa per levare il cuore a uno zombie durante una lotta, quando magari potrei fare di meglio decapitandolo con una motosega o tagliandogli le gambe? Bah. Alessio Cherubini (Eaters, Anger of the dead) nel ruolo dello zombie/capo resta impresso per potenza visiva e make up.

Il film vale una visione spensierata, se non altro per il senso di cupo che lascia… e questo è buono; lascia però anche molte domande a cui non si ha risposta… e questo è meno buono. 6 su 10.

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Paola Barale torna al cinema in un horror “contagioso”!

Dopo l’adventure-game  Pechino Express, la bionda sta per tornare in TV su Italia 1 con FLIGHT 616 e sul grande schermo nel film “Virus: Extreme Contamination”,  girato in Kosovo da Domiziano Cristopharo.


La sceneggiatura è di Antonio Tentori, noto scrittore che ha collaborato in passato con alcune delle più importanti icone del genere come Lucio Fulci e Dario Argento, e racconta la storia di uno scienziato italiano che  raggiunge il Kosovo per studiare l’impatto di un meteorite che pare abbia provocato dei danni sul posto. Giunto sul luogo, l’uomo scopre che il corpo celeste è stato spostato presso una base militare vicina, dove tutte le persone si sono trasformate in creature mostruose.

Colpito dalla sua “bionda musa”, Cristopharo torna a girare a maggio con ancora Paola Barale, affiancata dal modello Julien Mbiada in Calabria, in una produzione italo/francese che si affianca a Filmon Aggujaro (già produttore di Virus) su una sceneggiatura di Andrea Cavaletto (Dylan Dog, Hidden in the woods) di cui però al momento si sa poco. Molto riserbo circonda attualmente il progetto che si denota interessante se non altro perché la Barale sarà, per la prima volta, protagonista assoluta ed unico personaggio “vivo” in scena.

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